La crisi causata dal coronavirus segna un nuovo inizio nella cultura del progetto, che deve prima di tutto ripartire da un profondo ripensamento dei suoi valori fondamentali

Quando, alla fine, è arrivata, la fine del mondo è arrivata a rate. Isole di plastica, innalzamento dei mari, scioglimento dei ghiacciai, rammollimento del permafrost, destabilizzazione di ecosistemi, fino a causare il salto di specie di un virus che ci ha costretto a fare i conti con una realtà troppo a lungo rimossa. E quando, dopo settimane di silenzio circoscritte da argini adamantini (il lockdown) ma prive di un orizzonte di riferimento (snervante la mancanza di chiarezza su ogni possibile strategia), la vita è ripresa, ad aspettarci non c’era la normalità che avevamo lasciato ma un mondo diverso, più stretto e contingentato, desincronizzato e a distanza.

Tutto questo sta succedendo adesso, all’inizio di un nuovo decennio. E come già accaduto altre volte in passato, anche in questo caso l’aprirsi di una nuova decade richiede alla cultura del progetto di resettare i suoi fondamenti per addentrarsi in un inatteso (ma non imprevedibile) futuro. In particolare, è il modello di benessere economico che abbiamo portato avanti finora, basato sullo sfruttamento aggressivo delle risorse naturali, a non essere più sostenibile – non tanto per il pianeta, che procede comunque verso il suo esito cosmico e necessario, ma per noi. Né è più una questione ‘se’ passare a un sistema economico meno prevaricatore nei confronti dell’ambiente: che lo si faccia o meno, l’ambiente ha già iniziato a reagire in maniera drastica, e se si arrivasse allo scontro decisivo non è difficile prevedere chi ne uscirebbe sconfitto.

Ma il punto non è questo. Non si tratta dell’affermazione dei valori dell’economia ‘contro’ i valori della sostenibilità. Si tratta, piuttosto, di disinnescare questo conflitto, di smontare la contrapposizione tra antropico ed ecologico facendo tutti, in prima persona, un passo indietro, per disintossicarsi da un modello di benessere che nonostante le migliori intenzioni (laddove presenti) ci sta presentando un conto troppo salato per poter essere ancora sostenuto. È questa la sfida epocale del design. Progettare per smontare la contrapposizione. Orchestrare il racconto estetico e funzionale della contemporaneità attraverso una costellazione di risposte pensate per un pianeta in ebollizione, per mari che ingoiano terre, per contagi virali che non si possono arrestare.

Si possono considerare oggetti-koan in tal senso i pezzi di Ferréol Babin, momenti di un personale percorso fatto di agili sinergie tra segno e rispetto, accelerazione e attesa, in cui l’astratta bellezza delle nuvole digitali convive intimamente con l’opacità ancestrale delle forze telluriche."

E se la gravità della situazione è proporzionale alla radicalità della soluzione, quanto profonda dovrà essere l’autocritica del progetto? Quanto alto l’ostacolo oltre cui gettare il cuore? Da un punto di vista filosofico, ogni ‘progetto’ si basa da un preliminare ‘rigetto’ della realtà, ogni intervento di progetto nasce cioè dalla volontà di modificare il dato reale per adeguarlo a una sua immagine ideale ritenuta migliore e più desiderabile. Ma nel momento in cui, a causa dell’impressionante sviluppo tecnologico degli ultimi decenni, la potenza di intervento umano sulla terra cresce a dismisura, ecco che tale assunto non più è avvalorabile. E quando le cose vanno fuori misura subentra la hybris, la cieca superbia che porta l’uomo a sentirsi onnipotente di fronte al dato naturale, finendo travolto da una violenta ondata di ritorno delle cose verso il loro ordine. E questa volta non basterà un po’ di kintsugi per rammendare la broken nature.

È tempo di dire addio al vecchio mondo e di mettersi seriamente a costruire un rapporto diverso tra umano e non umano. Un rapporto non più fondato sulla rimozione ma sull’accettazione della misura del mondo. Non c’è più tempo per nostalgie e autodafé (risulteremmo comunque tutti corresponsabili). Il nuovo mondo è già iniziato, da adesso in poi il design dovrà mostrare riflessi pronti (come con le maschere da sub convertite in respiratori) e sostenere il mandato di una più consapevole curatela del quotidiano. In particolare, sarà proprio la necessità di una lunga convivenza con il virus a rendere tanto più importante, oltre alla messa a punto di nuove prossemiche e gestualità sociali, la ridefinizione formale, cromatica, materiale, spaziale, esperienziale della dimensione domestica. Dimensione che sarà sempre più ‘blended’, mista fra reale e digitale, pragmatismo delle soluzioni e lirismo del respiro abitativo, necessarie austerità e altrettanto necessarie (ma più giuste, garbate, misurate) emozionalità.

Ancora, il nuovo orizzonte del progetto dovrà saper raccontare il superamento della contrapposizione tra libertà culturale e ineluttabilità naturale, favorendone l’assorbimento per via omeopatica nella sensibilità dell’utente. Il design dovrà far ‘sentire’ all’utente che il prodotto non è un risultato finale ma la fase di un processo circolare in cui ogni fase rilancia la successiva. L’energia progettuale dovrà scorrere cioè tra le forme del design come il ‘chi’ scorre tra le forme del tai chi, un flusso di energia mai bloccato, né ostacolato, ma sempre in circolazione, costantemente accettato e rilanciato.

Non si tratta dell’affermazione dei valori dell’economia ‘contro’ i valori della sostenibilità. Si tratta, piuttosto, di disinnescare questo conflitto, di smontare la contrapposizione tra antropico ed ecologico facendo tutti, in prima persona, un passo indietro, per disintossicarsi da un modello di benessere che nonostante le migliori intenzioni (laddove presenti) ci sta presentando un conto troppo salato per poter essere ancora sostenuto. È questa la sfida epocale del design."

Questa idea di energia intesa non come riserva da bruciare ma risorsa da gestire è propria anche dello zen, il cui insegnamento passa spesso attraverso i koan, brevi aneddoti contenenti un paradosso che ha lo scopo di risvegliare la consapevolezza nel discepolo. Ora, un singolo oggetto di design non può certo cambiare il mondo; può, però, come un koan, contenere in sé l’idea compiuta di un mondo diverso. Fotogramma materiale di una visione altra delle cose, l’oggetto-koan raccoglie in sé buio e luce, gravità e libertà, inerzia e apertura.

Si possono considerare oggetti-koan in tal senso i pezzi di Ferréol Babin, momenti di un personale percorso fatto di agili sinergie tra segno e rispetto, accelerazione e attesa, in cui l’astratta bellezza delle nuvole digitali convive intimamente con l’opacità ancestrale delle forze telluriche. Roccia e poesia, rispetto tecnologico e umanistico per il materiale, saggezza artigiana e possibilità dell’industria, convergono nella concreta limpidezza del design di Babin dando origine a oggetti calmi, vibranti, eterni e transeunti. Nunzi dell’alba/tramonto su un mondo nuovo/antico.