Portare design e tecnologia in spazi anonimi per riconnettere le relazioni sociali, in città o nei luoghi di lavoro. Le storie di uno studio di progettazione e di un’azienda che, con l’approccio tipico del made in Italy, fanno la differenza nel mondo

Quando, nel 1992, l’antropologo francese Marc Augé uscì con il suo saggio fortunatissimo sui nonluoghi, le nostre vite scorrevano su un fondale tutto sommato rassicurante, dove gli elementi stranianti rappresentavano ancora un’eccezione, più o meno frequente. Trent’anni dopo, tutto sembra cambiato. Prima, la tecnologia digitale ha iniziato a proiettarci in un altrove parallelo. Poi la pandemia ha fatto il resto, prosciugando la socialità anche nelle belle piazze rinascimentali, al punto da indurre a chiederci se tutto sia ormai un nonluogo. O se, forse, non lo è più nulla.

In mezzo ai dubbi, il design prova a indicare una strada. E quello italiano sembra pronto alla sfida, con l’istinto progettuale e la vocazione hi-tech che lo contraddistinguono ogni volta che c’è da reinventare la socialità e i suoi spazi. Ben sapendo che, pubblici o privati, saranno tutti luoghi in cui ri-connettere vite, network, emozioni.

Per questo Massimo Roj, architetto e ceo di Progetto CMR, secondo studio di architettura in Italia per fatturato, oggetto delle cronache più per il progetto del nuovo stadio di San Siro che per gli headquarter aziendali firmati in giro per il mondo, insiste sul bisogno di ripartire dalle agorà, moltiplicando le piazze, urbane o nei luoghi del lavoro, e di farlo senza temere la densità umana, pur nell’era del distanziamento.

“Le piazze sono il lascito principale della nostra civiltà. Non soltanto quelle d’arte dei centri storici italiani: anche l’Eastland Center di Detroit, considerato il primo centro commerciale della storia, era nato nel 1957 per connettere in un unico luogo persone provenienti dalla campagna o comunque lontane. Poi, quel modello ha finito per generare anche gli effetti negativi che conosciamo, ma per soddisfare il bisogno dell’altro è ancora fondamentale progettare spazi di connessione, nella piccola e nella grande scala”. 

Connessione, dunque. Non a caso, a Progetto CMR hanno chiamato Connector lo spazio pensato per iniettare una socialità nuova, inattesa, in uno stabilimento industriale nell’area cargo di Malpensa, forse il nonluogo italiano per eccellenza. Per l’hub italiano di DHL Express Italy, 50 mila mq, Roj e il suo team hanno pensato a una struttura dove seicento dipendenti possano incontrarsi rispettando gli standard di sicurezza post Covid nei momenti di pausa, senza distinzione di mansioni e ruoli: “Un’agorà, appunto”.

Ma connector è anche il principio attivo che Roj e il suo studio proiettano nella scala urbana ripensando Milano come città policentrica nelle proposte di rigenerazione delle periferie meneghine avanzate in questi mesi, immaginate come una serie di centri connessi tra di loro ma autonomi, in grado di offrire a chi li abita qualità edilizia e spazi per il tempo libero. “Zero consumo di suolo, trasformazione delle aree degradate in luoghi compiuti, creazione di un mix di abitanti eterogeneo e multiculturale, più verde, decarbonizzazione e consumi energetici efficienti”: Roj sgrana il rosario delle possibilità guardando a modelli come Parigi e Amburgo, dove progetti di rigenerazione simili sono in via di completamento, e invita a non guardare alla densità come a un rischio, anzi, “perché la città smart diventerà anche una città safe grazie alla tecnologia”. 

A proposito di nonluoghi, fa sorridere pensare come nel ’92 Augé includesse in questa categoria anche gli ascensori, spazi che il made in Italy ha portato negli ultimi anni a livelli di qualità e sicurezza altissimi: da luoghi di passaggio, scatole anonime in movimento, ad architetture dense di tecnologia e design customizzato, capaci, come lo Sky Lift della realtà lombarda IGV Group firmato dallo studio romano MaMa Design, di assecondare il ritmo circadiano giostrando luci e atmosfere a seconda dell’ora di funzionamento. 

Leggi qui un approfondimento su Sky Lift di IGV Group

Esemplare è la vicenda di Michele Suria, CEO di IGV Group, marchio partito negli anni Sessanta come produttore di pulsantiere e asceso nel tempo fino a costruire in media tremila macchine l’anno, incluse quelle per il Quirinale e il Castello Sforzesco, l’Opera House di Sydney e l’aeroporto di Liverpool. Con un passato speso tra Ferrari, Ansaldo, Coin e incursioni nel mobile (Driade), Suria ha rafforzato l’attitudine sartoriale del marchio facendone un altro protagonista del made in Italy.

“Per questo” racconta Suria “abbiamo affidato l’art direction a Giulio Cappellini e siamo continuamente impegnati nello scouting di designer. La nostra forza è quella della bottega artigianale da cui tutto è partito cinquant’anni fa, con una spinta all’innovazione che ci ha permesso di brevettare sistemi di sanificazione con certificazioni da white room, il tutto con una filiera made in Italy. Il nostro team di ingegneri è in grado di progettare soluzioni in linea con le norme di qualsiasi Paese e di portare a terra progetti visionari come lo Sky Lift”. A patto, ovviamente, di farli poi risalire. 

In apertura, sopra e sotto, diverse versioni di On Air, design Studio Marco Piva per IGV Group. Disponibile in una serie di cabine rivestite con materiali pregiati quali laminati, alluminio e Vetrite, è un ascensore che influisce sugli ambienti come un elemento di interior design.