Questa storia inizia nel 1970, con un fotogramma preciso. Siamo a Copenhagen, la capitale danese è una città europea come tante altre, con una mobilità urbana sviluppata principalmente su quattro ruote e dove soltanto il 9 per cento della popolazione usa la bicicletta. In più, il progetto di una grande autostrada destinata ad attraversare il centro incombe. “Cinquant’anni dopo, Copenhagen contende ad Amsterdam il primato di città più ciclabile d’Europa: nel 2015, già il 41 per cento degli abitanti si spostava in bicicletta. Il numero di due ruote avrebbe sorpassato quello delle auto l’anno successivo” racconta Davide Paterna, coordinatore del festival di architettura Change che ha tra i suoi focus proprio la nuova mobilità.
Che cosa era successo nella capitale danese? “All'inizio degli anni Settanta, 150 mila abitanti erano scesi in piazza per chiedere politiche in favore della mobilità sostenibile. La crisi petrolifera farà il resto dando la spinta definitiva verso il cambiamento. È in quegli anni che vengono ideate le domeniche a piedi, si abbandona il progetto dell'autostrada urbana e si dà vita a una serie di investimenti che fanno di Copenaghen la prima o seconda città ciclabile al mondo: non solo infrastrutture e incentivi, ma anche formazione e la costruzione di un immaginario culturale che ha fatto della capitale danese un caso e un modello internazionale”.
La favola danese dimostra, tra varie cose, una verità importante quando si parla di nuova mobilità, segnatamente ecologica: che non esistono Paesi e luoghi con un Dna ‘alternativo’ o virtuoso. “Nessuno nasce fautore di un mezzo specifico, che sia l’auto o il monopattino, ma tutti possiamo cambiare attitudine e consumi, se ben motivati e spinti dalla storia o da agenti esterni”, dice Toti Di Dio di Push, studio di service design con base a Palermo molto attivo nell’analisi dei comportamenti legati, appunto, alla mobilità urbana.
Lo studio del modo in cui ci muoviamo nelle nostre città è terreno insidioso come pochi altri, perché ha a che fare con aspetti economici che si intrecciano a componenti emotive, irrazionali che spesso fanno pendere l’ago della bilancia a favore di scelte paradossali. Come dire che spesso finiamo per scegliere il mezzo di locomozione più per aderenza e fedeltà a una tipologia umana (dimmi che mezzo usi e ti dirò chi sei: borghese, neohippy e così via) che non per reale convenienza.
Un dato di fatto però sembra ormai acquisito, quello che – complice gli effetti della pandemia – ci vede sempre meno driver legati a uno e un solo mezzo specifico e sempre più mover aperti a un paniere di soluzioni possibili. Un fenomeno che riguarda anche il mondo apparentemente incoercibile delle automobili e degli automobilisti, dove, come fotografa un’indagine del 2019 di Kantar, chi è affezionato alle quattro ruote ha iniziato a favorire sul mercato veicoli sempre più connessi, in condivisione ed elettrici, integrati in un ecosistema di fruibilità accessibile e fluido. Che in altri termini vuol dire un progressivo allontanamento dall’idea della vettura come status symbol a favore di una visione di ‘servizio’.
Fuori dal mondo dell’auto, il mover è chi ha consapevolezza delle proprie esigenze ed è aperto al nuovo, alla tecnologia, all’integrazione delle opportunità che il digitale attiva quando ci si deve spostare. L’orizzonte di questo popolo in crescita si chiama mobility as a service e consiste in quei sistemi integrati ancora poco diffusi in Italia (nel Nord Europa i pionieri: Finlandia e Germania, mentre da noi se ne discute a Milano) che, con un unico abbonamento, permettono di usare ora un mezzo pubblico, ora un’auto in sharing, ora un monopattino o una bici, a seconda del tragitto. Pagato un forfait mensile al service provider, questo suggerisce la combinazione più efficace e conveniente, integrando le diverse opportunità di movimento e ‘leggendo’ le preferenze dell’abbonato.
Insomma, arriveremo presto a un mondo in cui nessun mezzo e il relativo utilizzatore sarà demonizzato (i ciclisti dagli automobilisti e viceversa, gli affezionati al monopattino dai pedoni e così via) e tutti concorreranno a definire il bouquet di vetture e veicoli ideali, secondo ragionevolezza? “Possiamo essere ottimisti”, risponde Toti Di Dio. “Finalmente, inizia a farsi spazio l’idea che dietro a ciascun mezzo di trasporto c’è semplicemente un modo di muoversi, più o meno adatto alle esigenze specifiche, con i suoi pro e i suoi contro, e non un profilo sociologico ed economico. E anche se l’irrazionalità prevale ancora nelle scelte su come muoversi, come confermano alcune nostre indagini, aumenta la presa di coscienza che strumenti come la bicicletta e il monopattino possono davvero sostituire le auto”.
Nessuna demonizzazione verso le quattro ruote, nello scenario ideale di domani, perché l’auto, se non inquinante e possibilmente in sharing, resta una risorsa, se anche Di Dio racconta di averne appena comprato una: “Una figlia in arrivo e vivere in una città come Palermo sono due cose che possono valere il compromesso. L’importante è che questo compromesso sia al rialzo: nel mio caso la scelta è ricaduta su un modello full electric e in famiglia ci stiamo attrezzando per ottenere dal condominio la possibilità di parcheggio nell’edificio”.
Le opere che illustrano il testo fanno parte di Under Milano, l'evocativo progetto fotografico di Tiziano Demuro e Sergio Raffaele che racconta gli spazi ibridi, nomadi e in continua evoluzione della metropolitana milanese. Con uno sguardo intimo, seppur discreto, gli scatti dalle geometrie scolpite in sottrazione disegnano il paesaggio urbano – sotterraneo, nascosto e pulsante – di Milano. Attraverso gesti quotidiani, frammenti, attimi e dettagli suggeriscono, come poetiche pennellate, un caleidoscopio di ambienti e situazioni. Account instagram @undermilano.
In apertura e qui sopra, un’interpretazione contemporanea del trasporto pubblico. Island è il concept di un tram a due piani senza conducente ideato da Ponti Design Studio per la città di Hong Kong post Covid. Pensato per l'utilizzo dei mezzi pubblici in sicurezza, il nome rimanda all'interior design caratterizzato da grandi sedute circolari ad isola che favoriscono il distanziamento sociale; il design degli esterni si ispira invece al paesaggio urbano di Hong Kong con ampie superfici vetrate e spigoli arrotondati. Il progetto include anche le fermate del tram.