Pazienti che diventano progettisti, progettisti che collaborano alla pari con medici, disabili e volontari. Le storie di chi guarda avanti lavorando per chi rischia di restare indietro

“La fragilità è la vera condizione dell’esistenza. L’uomo non è chiamato a legarsi agli altri o all’ambiente, perché gli è già legato, ontologicamente”. Sono passati tredici anni da questo pensiero del filosofo argentino Miguel Benasayag, affidato al saggio La Fragilità (Edition La Decouverte, 2007), ma c’è voluta una pandemia per rovesciare la percezione comune di un mondo diviso in abili e meno abili, in forti e deboli, sprofondando tutti nello stesso pozzo di incertezza.

Con l’emergenza, sanitaria e sociale, che diventa regola, ecco perciò salire a galla, nell’universo del progetto, un mondo solo relativamente nuovo, dove a fare la differenza, più che il design in senso stretto con i suoi protagonisti, è l’approccio da designer di una moltitudine di realtà di provenienza ed estrazione varie. Un mondo dove competenze e linguaggi si uniscono fuori dalla comfort zone autoriale del design classico, con l’obiettivo di rendere migliore e più bella la vita di malati e disabili.

Un mondo fatto di community, dove expertise, professionalità diverse e rispetto reciproco sono il filo comune di chi ne fa parte. E dove i designer siedono allo stesso tavolo di medici e terapisti. O lavorano come maker che hackerano protesi e carrozzine per paraplegici. O sono, addirittura, i pazienti stessi: imprenditori disabili che progettano e firmano carrozzine alla moda, ex pazienti oncologici che disegnano e prototipano strumenti per rendere più funzionali e attraenti le camere asettiche di un ospedale. O, ancora, medici che in quegli ospedali hanno imparato a progettare strumenti per l’assistenza di persone con problemi motori, valorizzando ancora di più i laboratori di stampa digitale di cui molte strutture sanitarie in Italia già dispongono.

“Dietro quello che chiamiamo codesign, c’è un patto di ferro”, spiega Enrico Bassi di OpenDot, studio tra i più attivi in Italia nella progettazione partecipata per il mondo fragile (guarda qui la sua intervista per Interni Design Journal). “Da un lato c’è il designer con la sua capacità di progettazione che è anzitutto capacità di astrazione. Dall’altro, i terapisti e i pazienti con le loro richieste e il loro linguaggio. Quando ciascuna di queste parti fa un passo indietro, accettando di incontrare l’altra su un terreno comune, i risultati arrivano e possono fare scuola”. Sono nate da questa esperienza collaborazioni come quelle tra OpenDot e la fondazione milanese Together to Go, che si occupa della riabilitazione di bambini neurolesi. E progetti come TOP! Together to play, suite di videogiochi che usano il tracciamento oculare per dare ai piccoli disabili un’opportunità di svago e allo stesso tempo immagazzinare dati che servano a valutare l’efficacia della terapia. 

Progettata da OpenDot, DotdotdotFondazione TOGWeAreMuesliIstituto Mondino di Genova, PHuSeLab UniMi, la suite di videogame propone sessioni di riabilitazione e apprendimento basate su giochi e attività interattive, rese possibili dal sistema di tracciamento oculare. Qualcosa che difficilmente avrebbe visto la luce senza un sistema integrato e di collaborazione tra designer, medici, pazienti, volontari. La verità, spiega Enrico Bassi, è che diventa difficile progettare da soli qualcosa che non esiste ancora. “Quando si lavora su un terreno inesplorato, è meglio farlo con chi quel terreno già lo abita. Il design soffre di autorialità, di protagonismo, quando invece le esperienze più fresche e innovative arrivano dalle community, come abbiamo visto nei giorni caldi dell’emergenza Covid, quando un appello sui social network ha permesso a un maker di realizzare un prototipo efficace di mascherina. La lezione del codesign è che il progettista, nel 2020, è qualcuno che mette al mondo un progetto e lo fa crescere con il contributo di tutti”.

Progetto e vita coincidono nella (bella) storia di Alissa Rees che inizia nel 2011, quando questa studentessa olandese in filosofia s’ammala di leucemia e viene ricoverata per sottoporsi a un delicato trapianto di staminali da sangue cordonale. Quell’esperienza, fatta di dolore e paura, ma anche di ambienti asettici e spogli, di pasti sempre uguali e nessun contatto con la natura, la segna come avrebbe fatto con chiunque altro. Alissa ne esce guarita ma provata al punto da decidere di cambiare sogni e ambizioni professionali. Abbandona la filosofia, abbraccia il design e si laurea alla scuola di Eindhoven. Il suo primo lavoro è una coppia di biglietti illustrati, uno con la data di nascita e l’altro con quella di ri-nascita, ovvero del trapianto.

Alissa li invia a tutte le persone che in un modo o nell’altro le sono state vicine in quel periodo. “Non soltanto il mio sangue, i miei capelli e il mio corpo erano cambiati, ma anche la mia visione e la mia prospettiva”. Poi arrivano una serie di prodotti che, sinteticamente, potremmo definire di design medicale, ma che in realtà sono un modello di empatia applicata alle esigenze dei pazienti e un modo per riconcepire gli strumenti al servizio dell’uomo in condizioni di difficoltà. Set di portacandele per scaldare l’atmosfera vicino al letto d’ospedale, deflussori per flebo indossabili attraverso comodi indumenti imbottiti che non impediscono al malato di muoversi.

Anche in Danilo Ragona vita e progetto sono tutt’uno. Dopo un incidente che a 21 anni lo consegna alla sedie a rotelle, Danilo si iscrive all’Istituto Europeo di Design e inizia il percorso che a breve lo porterà a progettare carrozzine ripiegabili e infilabili dentro uno zaino, con ruote adatte a sabbia e neve, personalizzabili in undici undici colori e centinaia di combinazioni differenti.

Un osservatorio e allo stesso tempo un campionario di questo mondo coraggioso e realmente innovativo è stata, due anni fa, Fragilitas, la mostra all’interno della Triennale di design di Liegi, Reciprocity, curata da Giovanna Massoni. Una rassegna che era un invito esplicito a rovesciare la prospettiva e ad assumere proprio la fragilità come punto di vista sul mondo. Una preziosa ribalta internazionale per le protesi di Thomas Vancraeynest in materiali lavabili e riciclabili, leggere ed eleganti, perfette per non negare lo sport a chi vive con un handicap. O per quelle di Oliveira Barata che sono come accessori fashion e trasformano una necessità sanitaria nel modo di esprimere uno stile, il proprio. Che è quanto già aveva fatto Francesca Lanzavecchia trasformando in un capo fashion un busto ortopedico. O ancora i prototipi di carrozzine di Reto Togni, gli esperimenti di hacking della Howest University of Applied Sciences, ateneo delle Fiandre occidentali, che modificano modelli industriali di stampelle squadernando la verità dura da digerire: che ogni disabile è una storia a sé, e dunque ogni persona con un handicap richiede uno strumento unico, spingendo la frontiera della customizzazione oltre i limiti conosciuti dall’industria. E infatti alla Howest University non parlano di un generico design for all, ma di un più preciso e sartoriale design for everyone, dove ogni prodotto è frutto del dialogo tra il progettista e chi dovrà utilizzarlo.

Questa mole di esperienze, valori e progetti può portare a una serie di risultati e approdi davvero in grado di migliorare la vita delle persone più fragili. Innanzitutto, può facilitare il passaggio dal concetto di cura nel senso di terapia medica a care nell’accezione inglese, ovvero di assistenza. E, in secondo luogo, a livello più pratico, spingere la burocrazia a prevedere la presenza di designer e progettisti negli organici delle strutture sanitarie, frontiera in Italia del tutto inesplorata al momento. Osserva sul primo dei due punti Nawal Bakouri, tra i curatori della Fragilitas di Liegi: “Esiste il mondo della medicina, per il quale la salute è un obiettivo in sé. Ma star bene, non ammalarsi, non è uno status sufficiente: la salute serve a vivere e a portare avanti i propri progetti. In questo senso il contributo del design può essere decisivo: aiutare la medicina a capire come sviluppare oggetti ibridi, non convenzionali, che facciamo vivere bene”.

Quanto alla presenza dei progettisti negli ospedali, osserva Bassi di OpenDot: “Le strutture sanitarie potrebbero diventare centri di fabbricazione sfruttando i macchinari di stampa 3D di cui già alcuni dispongono e che spesso sono utilizzati soltanto per la diagnostica. Esiste già, in realtà, una generazione di medici che si stanno rimboccando le maniche e, dopo una formazione mirata, riescono a produrre supporti e ausili per la riabilitazione di neurolesi. Sarebbe stupendo se il design prendesse per mano queste realtà accompagnandole fino a che non diventano autonome”. Perché se lascia indietro qualcuno, allora non è vero design.

 

Nell'immagine di apertura, la fotografia Concerto’ scattata da Osanna Davi durante la quarantena: la fragilità e l'integrità dei soffioni in un bilanciamento perfetto.