“Dietro quello che chiamiamo codesign, c’è un patto di ferro”, spiega Enrico Bassi di OpenDot, studio tra i più attivi in Italia nella progettazione partecipata per il mondo fragile (guarda qui la sua intervista per Interni Design Journal). “Da un lato c’è il designer con la sua capacità di progettazione che è anzitutto capacità di astrazione. Dall’altro, i terapisti e i pazienti con le loro richieste e il loro linguaggio. Quando ciascuna di queste parti fa un passo indietro, accettando di incontrare l’altra su un terreno comune, i risultati arrivano e possono fare scuola”. Sono nate da questa esperienza collaborazioni come quelle tra OpenDot e la fondazione milanese Together to Go, che si occupa della riabilitazione di bambini neurolesi. E progetti come TOP! Together to play, suite di videogiochi che usano il tracciamento oculare per dare ai piccoli disabili un’opportunità di svago e allo stesso tempo immagazzinare dati che servano a valutare l’efficacia della terapia.
Progettata da OpenDot, Dotdotdot, Fondazione TOG, WeAreMuesli, Istituto Mondino di Genova, PHuSeLab UniMi, la suite di videogame propone sessioni di riabilitazione e apprendimento basate su giochi e attività interattive, rese possibili dal sistema di tracciamento oculare. Qualcosa che difficilmente avrebbe visto la luce senza un sistema integrato e di collaborazione tra designer, medici, pazienti, volontari. La verità, spiega Enrico Bassi, è che diventa difficile progettare da soli qualcosa che non esiste ancora. “Quando si lavora su un terreno inesplorato, è meglio farlo con chi quel terreno già lo abita. Il design soffre di autorialità, di protagonismo, quando invece le esperienze più fresche e innovative arrivano dalle community, come abbiamo visto nei giorni caldi dell’emergenza Covid, quando un appello sui social network ha permesso a un maker di realizzare un prototipo efficace di mascherina. La lezione del codesign è che il progettista, nel 2020, è qualcuno che mette al mondo un progetto e lo fa crescere con il contributo di tutti”.