Le metropoli hanno una sola via evolutiva: la forestazione massiva. È così che si alimenta la sostenibilità ambientale e sociale

“L’accesso agli spazi verdi è sempre una questione di giustizia ambientale” sostiene Elizabeth Diller, l’architetto che ha rivoluzionato l’idea di rigenerazione urbana e paesaggio.

Per Diller il restauro dello spazio cittadino è innanzitutto una questione sociale. Un impegno dichiaratamente politico che, a suo dire, gli architetti dovrebbero assumersi spontaneamente. Perché è nella conquista di ogni piccolo lembo di spazio comune all’interno delle grandi città che si combatte innanzitutto una battaglia contro l’inerzia collettiva. Le sfide del climate change sono, sì, al di fuori della portata dei singoli, ma bisognose di advocacy corali. Insomma: il progetto di recupero della High Line newyorchese è nato dall’attivismo e dalla partecipazione civile, per poi diventare un punto di partenza, un input culturale che ha definitivamente cambiato l’idea di rigenerazione urbana.

Sempre secondo Liz Diller, il perno intorno a cui ruota il successo della High Line – o del parco Zaryadye di Mosca e del suo milione di visitatori nel primo mese di apertura – è il verde. Non il progetto paesaggistico inteso come definizione estetica di un luogo artificiale, ma il rilancio della natura spontanea, della re-invasione di erbacce e flora locale, che ovviamente si popola poi di animali selvatici, dagli insetti ai piccoli mammiferi. Utili al restauro di un equilibrio virtuoso in cui i confini fra civile e non civile diventano inutili.

La fluidità fra verde e ambiente “mineralizzato” è in effetti la grande sfida, climatica e economica, delle aree metropolitane. Perché i cittadini si sentano a proprio agio e possano davvero sfruttare lo spazio pubblico, occorre che la natura urbana sia un sistema integrato, libero, che viene coabitato da umani, animali e piante. È l’uscita dal mindset antropocentrico necessaria a immaginarsi un pianeta più sano.

Le città sono uno dei primi luoghi destinati alla transizione green. Le soluzioni mirano a modificare il paradigma urbano grazie a, sembra una cosa incredibile, la massiva riforestazione. La municipalità di New York ha in programma la messa in sede di un milione di alberi, non per rendere ameno il paesaggio, ma per ottenere significativi risparmi nella gestione climatica degli edifici, nella salute pubblica, nella valorizzazione commerciale degli spazi.

La Global Commission on the economy and climate avvisa che le città che non aderiscono a un’idea di crescita green, sono destinate a spopolarsi e a subire un declino economico. La transizione green dei grandi centri urbani passa per la rigenerazione del verde all’interno delle grandi aree degradate, anche e soprattutto per poter ovviare a un’urbanizzazione pericolosamente malsana e incapace di generare benefit.

La Cina da questo punto di vista sta facendo scuola. Passare dal detenere un primato dell’inquinamento mondiale a rivestire il ruolo di capofila della rigenerazione urbana significa innanzi tutto pensare in grande e investire molti soldi. Due qualità su cui il gigante asiatico punta anche per rifondare un’idea benessere collettivo. “Che se da una parte è stato trascurato durante gli anni del boom capitalista, dall’altra rimane un diktat politico prioritario” spiega Aldo Cibic, autore di un progetto di bonifica sociale e territoriale a Shanghai, insieme all’università Tongji. Il restauro dei paesaggi significa rendere tutta la popolazione partecipe di una qualità di vita diffusa, sinonimo di benessere e di strategie a lungo termine. “La popolazione è coinvolta, nonostante non sia facile immaginare la Cina come un luogo democratico. E la partecipazione diventa coprogettazione molto più facilmente che in Paesi più democratici”, conclude Cibic. La pandemia ha rafforzato l’impegno della ricerca, che si concentra sull’evoluzione di questi dinosauri energivori. La forestazione, la creazione dei famosi sponge park, e lo sviluppo di politiche agricole urbane trasforma le città in produttrici di risorse. Il verde fa risparmiare energia, pulisce l’aria, migliora la qualità dell’aria.

L’ideale di una qualità di vita distribuita fa parte delle transizioni verdi di tutte le megalopoli. Rigenerare costa e, il rischio di giocare una nuova battaglia sociale sul costo della sostenibilità, non è così remoto. Una delle domande più frequenti che vengono rivolte a Stefano Boeri a una decina d’anni dall’inaugurazione del Bosco Verticale è ancora: quanto costa al metro quadro? Non un quesito banale. Rigenerare costa molto. Piantare delle piccole foreste sulle facciate dei grattacieli, ha dei prezzi proibitivi. “Ma gli investimenti fatti sono serviti a sperimentare un modello per poi renderlo riproducibile” precisa l’architetto nella docuserie Rai Lezioni sulla fine del mondo. “Al momento stiamo costruendo boschi verticali che costano 1250 euro al metro quadro”. Occorre capire le funzionalità del verde, misurarle, trasformarle in plusvalore.

La guerra fra il capitalismo verde e le economie più fragili però è una realtà. I grandi progetti rigenerativi degli scali milanesi sposteranno centinaia di milioni di euro e contribuiranno al rischio di gentrificazione. 180 milioni di euro sono l’investimento solo per l’area di Porta Romana, futuro Villaggio Olimpico promosso da Prada, Coima e la francese Covivio. La soluzione, secondo il direttore dell’osservatorio Green Economy Bocconi Davide Croci, è: “la concertazione di istituzioni pubbliche e private su un’agenda comune”.

E, come ricorda Liz Diller, l’impegno etico degli architetti. Non resta che sperare che proprio lo studio Diller Scofidio + Renfro vinca il concorso per il nuovo progetto.

 

In apertura, Smart Forest City, progetto dello studio Stefano Boeri Architetti per un insediamento autosufficiente a Cancun, in Messico. Credit The Big Picture.