Riusare, riciclare, mettere al bando la plastica. Basta per avere un mondo più pulito e sostenibile o in una guerra giusta ci sono anche nemici sbagliati? Progettare in un’ottica complessiva, di vera economia circolare, può anche voler dire dover sfatare qualche luogo comune

Anche nel design le verità più scomode prima o poi diventano luoghi comuni. Slogan, come quello secondo cui la plastica è il nemico giurato di un mondo ecologicamente perfetto. O l’altro che recita come il legno e i materiali naturali siano gli strumenti ideali di un’industria sostenibile.

Sono due tra i refrain più gettonati dell’ecodesign, quel mondo sfrangiato che ha i suoi punti di forza nella progettazione sostenibile – e quindi nel riciclo, nella fabbricazione con pezzi scomponibili e reimpiegabili e in decine di altre pratiche virtuose. Perché un mondo senza plastiche, con più materie prime naturali e in cui quasi nulla finisce in discarica, è un mondo migliore.

“È senz’altro vero in linea di principio”, dice Andrea Corona di Quantis, agenzia internazionale di consulenza ambientale. “Ma se puntiamo la lente sui meccanismi più articolati che regolano qualsiasi attività umana, ci accorgiamo di come certe realtà che abbiamo giustamente deciso di combattere nascondono questioni complesse, da risolvere con strategie dedicate. E che la soluzione che sembra perfetta in astratto, in concreto può non essere la migliore”.

Il caso di scuola citato in genere per dimostrare come una battaglia giusta può avere obiettivi sbagliati, è quello delle cannucce: se è vero che quelle in plastica sono destinate a diventare rifiuti non riciclabili, lo è anche che l’alternativa in acciaio ha senso a certe condizioni, ovvero che ogni cannuccia in metallo sia usata almeno centocinquanta volte prima di essere gettata via: al di sotto di questi numeri, l’impronta generata dalla sua produzione sarà stata un prezzo comunque alto per l’ambiente. “In altre parole, se non si segue un approccio scientifico e quantitativo, la nostra percezione può guidarci nella direzione sbagliata”, sintetizza Corona.

Il criterio, l’approccio, quasi la filosofia che insegna a muoverci tra le insidie della giusta guerra che rischiamo di combattere con la cannuccia sbagliata ha un nome preciso, da tempo sulla bocca di tutti e nel cuore di molti, ma forse nella testa di pochi, almeno per come dovrebbe esserci davvero. Si chiama economia circolare e, a differenza dell’economia lineare – quella dell’estrazione delle risorse, della loro lavorazione e trasformazione in prodotti che presto o tardi diventeranno spazzatura punta sul ciclo, un sistema chiuso in cui tutto si rigenera evitando la nuova estrazione di materiali, l’uso di energia da fonti fossili e la produzione di scarti.

Nell’economia circolare – grazie a un design coerente – la vita dei prodotti si allunga con strategie ad hoc: condivisione, riparazione, riuso… Pratiche che da sole non basterebbero mai, ma che tutte insieme definiscono un paniere di soluzioni valide ed efficaci per ridurre l’impatto sull’ambiente.

Anche nel design la circolarità è ormai una parola chiave, se pensiamo a storie virtuose come quella di Jannelli & Volpi, eccellenza delle carte da parati che da un anno trasforma gli scarti di carta vinilica in granuli termoplastici che diventano la base per superfici in erba sintetica di aree gioco e campi da calcio. O, ancora, alla poltrona Sacco di Zanotta, lanciata un anno fa per il cinquantenario di questa icona del made in Italy in una edizione con involucro in Econyl® (nylon ricavato da scarti) e imbottitura in bioplastica ottenuta dalla canna da zucchero. La Sacco ha poi un’altra caratteristica circolare’: la durevolezza, visto che è un pezzo destinato a passare di casa in casa, di generazione in generazione. Ma se questa durevolezza è scontata in pezzi da migliaia di euro di cui difficilmente vorremmo disfarci, la scommessa più difficile è dare queste qualità, estetica e durevolezza a prodotti cui associamo una durata minore, più soggetti al gusto del momento e in genere destinati a essere gettati via e sostituiti dopo un po’.

I contenitori per il cibo, per esempio. E allora economia circolare vuol dire anche dare a una schiscetta lo stesso destino di una poltrona-icona. Che è quanto hanno fatto Simone Spalvieri e Valentina Del Ciotto con Re-Generation, la collezione di bottiglie, lunch box, borse e contenitori da cucina disegnata per Fratelli Guzzini e distribuita da Coop. “Una collezione per dimostrare che sostenibilità e bellezza sono possibili non soltanto negli arredi più impegnativi, ma anche negli strumenti di tutti i giorni, incluse le borse della spesa e le posate”. I pezzi di Re-Generation sono fabbricati con una percentuale di plastica post consumo (riciclata) del 70 per cento (solo nella bottiglia è al 50 per cento), nella quasi totalità dei casi proveniente dall’Italia.

Dalle poltrone-icona alle schiscette, è tutto design che spiega bene come ogni soluzione debba essere ritagliata nello specifico e mai derivare da regole astratte. “E infatti l’economia circolare è più una filosofia che un decalogo. Le soluzioni che può dare vanno valutate di volta in volta e caso per caso, con un approccio science-based per evitare il greenwashing” spiega Corona di Quantis. “Per esempio, la plastica è sempre la soluzione peggiore? Oppure effetti controproducenti si nascondono anche nell’uso di materiali naturali che spesso non sono ottimizzati, causando sprechi nell’estrazione e nella filiera? Perfino le bioplastiche, a partire da quelle con cui sono fabbricati i sacchetti per la spesa al supermercato, possono nascondere insidie maggiori delle plastiche tradizionali, visto che per produrle serve un consumo d’acqua non indifferente al prezzo del rischio di inquinare le falde e visto anche che per scioglierle occorrono fino a novanta giorni di trattamento ad alte temperature. Se invece pensiamo al riciclo dobbiamo tenere presente che quello di alcuni materiali come il policarbonato o il plexiglass, con cui sono fabbricati molti pezzi storici del design italiano, ha sistemi di recupero ancora poco avanzati e volumi di business bassi. Questo non significa che dobbiamo preferire la plastica tradizionale a quella bio o rinunciare a riciclare: vuol dire, semmai, che dobbiamo essere consapevoli di come non esista attività umana che non lasci un’impronta e che, messi di fronte a un bivio, dovremo scegliere la strada con l’impatto minore”.

L’espressione chiave che completa il cerchio di un’economia davvero circolare, e dà a questa e al design stesso un orizzonte di senso al di là degli slogan, insegnando a valutare come muoversi di fronte al famoso bivio di cui parla Corona, è Life Cycle Assessment. Ovvero lo studio che di ogni prodotto calcola e attesta con parametri quantificabili il costo ambientale dalla culla alla tomba: quanta energia è stata impiegata per produrlo, dalle materie prime ai trasporti? Quanta ne occorrerà per farlo funzionare? E quanto costerà smaltirlo? Si possono ridurre le emissioni collegate? “La scommessa del nostro lavoro” spiega ancora Corona “è puntare su una prospettiva olistica e science-based, dove ogni passo va valutato in base alle conseguenze nel contesto. Per dirla con un linguaggio medico, non curiamo il singolo malessere, ma ricerchiamo il benessere generale”.

Per tornare all’esempio della cannuccia, aiuta a capire se è meglio tirare su lo Spritz dalla plastica o dall’acciaio. Diffuso principalmente nei Paesi del Nord Europa, il Life Cycle Assessment si sta facendo largo anche in Italia, dove Arper, per fare un caso di design, lo ha scelto per valutare l’impatto di alcune collezioni. “Negli ultimi cinque anni, l’utilizzo del Life Cycle Assessment e in generale di metriche scientifiche per la valutazione della sostenibilità dei prodotti è cresciuto anche a livello decisionale e le valutazioni di questo genere sono ormai considerate strategiche”, spiega Corona. Una cartina al tornasole è la crescita italiana di Quantis, partita nel nostro Paese l’anno scorso con un organico di tre unità diventate dieci in questo 2020.

Questa ricerca olistica, che per un analista ambientale è un computo scientifico, nel caso di un designer corrisponde al rovello professionale ed etico per antonomasia di questi anni. Per dirla con Spalvieri e Del Ciotto: “Una mattina noi designer ci siamo svegliati di colpo con il mondo che ci diceva cose che in realtà sapevamo benissimo, e contro cui molti di noi già combattevano da anni insieme alle aziende più avvertite. E cioè che la plastica, se usata in modo incosciente, è un problema e che dobbiamo progettare oggetti che durino di più. Ma la circolarità non era un tema ignoto ai progettisti più responsabili. E infatti oggi ci ritroviamo a firmare una collezione in cui la plastica riciclata copre il l 70 per cento del materiale usato. Poi, certo, il nostro lavoro è anche spiegare perché il restante 30 per cento è fatto di plastica tradizionale”. Già, perché? “Perché design vuol dire anche contemperare esigenze diverse, in questo caso sanitarie e industriali come la difficoltà di lavorare e stampare un oggetto al 100 per cento bio. Nessun designer può cambiare il mondo di colpo, ma tutti un passo alla volta possiamo fare meglio ciò che finora non lo è stato”. Come dire che anche il compromesso, se è nobile e al rialzo, diventa circolarità.

 

In apertura e nell'articolo, immagini della mostra/progetto ‘Materiality & Aggregation’ ideata dalla designer svedese Kajsa Willner, nell'ambito del programma di ricerca Stepts (Sustainable Plastics and Transition Pathways) della Lund University, al fine di offrire nuove prospettive su come progettare, produrre, applicare e utilizzare la plastica per un futuro più sostenibile. Cinque i percorsi proposti, in mostra presso Form/Design Center a Malmö, in Svezia, dal 9 al 27 settembre 2020. Ph. Kennet Ruona.