Il mondo del piccolo e del grande schermo è il più grande creatore di immaginario high tech della storia. Ha iniziato prestissimo, visto che già erano gli anni Cinquanta quando Jacques Tati ha dedicato alla tecnologia (e ai suoi possibili danni collaterali) alcune delle sue opere più significative. Mio zio (1958), per esempio, è tutto giocato sul contrasto fra il sobborgo parigino chiassoso e pieno di umanità di Saint-Maur-des-Fossés in cui vive Monsieur Hulot (interpretato dallo stesso Tati), e l'asettica Villa Arpel dove abita la sorella con marito e pargolo. Fulgido esempio di casa modernista, Villa Arpel fu progettata dallo scenografo di Tati, Jacques Lagrange, e costruita interamente negli studi Victorine di Nizza. Open space interamente condizionato (come racconta la signora Arpel in occasione dei tour guidati a cui obbliga qualsiasi visitatore), la villa è arredata sia con oggetti allora in produzione (le sedute Scoubidou in acciaio e materiale plastico intrecciato, le applique di Serge Mouille, un vaso di Pol Chambost) sia con altri disegnati ad hoc da Tati e Lagrange. Cuore tecnologico dell'abitazione è la cucina, attrezzata con improbabili strumenti con cui cuocere le bistecche e sterilizzare le uova. A chi all'epoca chiedeva al regista se la sua fosse una posizione polemica contro l'architettura moderna, Tati rispondeva: “Non lo è affatto, semmai sono polemico contro l'uso che la coppia fa di questa casa. Una casa da far visitare, ma non da vivere”.