A cosa serve il dialogo nel progetto? A creare oggetti e strumenti impattanti, che cambiano la vita alle persone. Ecco perché scienza e tecnologia trasformano il design in una disciplina necessaria e serissima

I progetti nascono dalle parole. Scambiate, trattenute, a volte gridate. Molto più spesso sono parole che formano domande, tacciono per lasciare spazio, oppure accendono entusiasmi necessari all’invenzione. E a tentare di creare quello che ancora non esiste e di cui invece c’è urgenza.

Achille Castiglioni aveva il dono della parola e della curiosità: un tandem imbattibile quando si lavora con forme e funzioni. Ascoltare chi sa più di noi o sa cose diverse. Si chiama lavoro interdisciplinare, ed è molto più spontaneo di quel che potrebbe sembrare.

Se ne parla molto, di recente, ma è necessario al buon progetto da sempre. Pensateci: quando si dice letto di ospedale viene in mente a tutti lui, il TR5 per Omsa, Compasso d’Oro ADI 1978. Quello su cui gli Amici Miei di Monicelli stanno sdraiati a baccagliare nonsense. Quel letto è di Achille Castiglioni. Che l’ha disegnato parlando con il traumatologo Ernesto Zerbi.

Da una conversazione fra un designer e un medico ecco cosa esce: il TR5 ha le rotelle ed è leggero, accoglie il paziente all’accettazione, lo segue in ogni percorso di cura all’interno dell’ospedale e, alla dimissione, entra in deposito per essere sanificato. È un oggetto che non appartiene agli ambienti, ma al paziente, a cui si adatta e che aiuta nei movimenti e con le diverse possibilità di inclinazione.

Racconta Giovanna Castiglioni: “Mio padre sapeva ascoltare e non intervenire nelle scelte di chi aveva competenze diverse dalle sue. Un dialogo che sosteneva anche la relazione con i fratelli e con collaboratori storici come Max Huber. Ciascuno aveva passioni e competenze diverse, insieme facevano più di quanto avrebbero potuto fare da soli”. È bello immaginare che anche il rompitratta sia nato in questo clima di scambio e di curiosità. O il podometro, strumento ortopedico ridisegnato da Castiglioni. Occorre sottolineare che, in effetti, la collaborazione è il terreno ideale per un design poco urlato e proprio per questo perfetto per insinuarsi piacevolmente in tutti.

La formazione da ingegnere meccanico di Alberto Meda è cosa nota e visibile nel suo approccio al design. “Mi sono costruito però un background estetico frequentando altre discipline. Persino la letteratura ha contribuito a definire il mio modo di lavorare”. Come? “Le Lezioni americane di Calvino mi hanno suggerito l’importanza della sottrazione, della trasparenza della funzione e dell’intelligenza dell’oggetto. Voglio leggere il pensiero che ha portato una soluzione: la sua bellezza mi rende felice”, spiega Meda. E racconta: “Qualche tempo fa ho fatto da mentore ai fondatori di Springa, una startup di PoliHub del Politecnico di Milano nata per produrre una fresa robotica a controllo numerico: uno strumento molto innovativo. Ho solo dovuto suggerire di mettere in chiaro il loro pensiero, di togliere carrozzerie e sovrastrutture per far emergere l’intelligenza dell’invenzione. Che si è trasformata in un prodotto”.

Goliath CNC, così si chiama la fresa, è progetto esemplare per capire che il dialogo transdisciplinare è il presente e il futuro del progetto di design. Lorenzo Frangi, uno dei tre fondatori di Springa, spiega: “Goliath è nata da una mia fascinazione per il movimento Maker e le tecnologie di fabbricazione digitale che consentono di passare facilmente dalla progettazione 3D alla prototipizzazione”. Di formazione design engineer, Frangi spiega che il passaggio da un’idea alla sua industrializzazione è basato sulla collaborazione fra diverse discipline. “Siamo un team composto da designer e ingegneri perché un prodotto è figlio di una serie di complessità ed è assolutamente necessario che delle competenze diverse concorrano a rendere l’oggetto funzionante e riproducibile”. L’industrializzazione era nel dna di Springa fin dagli esordi, corroborata da un successo fulmineo – un milione di dollari in 45 giorni – sulla piattaforma Kickstarter. “La mia intenzione” spiega Frangi “è stata di trovare una soluzione ai limiti di dimensione operativa delle frese CNC desktop. Il suo successo è dovuto alla leggibilità di funzioni e interfaccia”. Un risultato che un designer, da solo, non può raggiungere.

Altro esempio di dialogo fattivo e impattante è la protesi bionica Hannes, che quest’anno ha fruttato il Compasso d’Oro a Ddpstudio. Gabriele Diamanti, insieme a Lorenzo De Bartolomeis e Filippo Poli, raccontano la storia della collaborazione con Italian Institute of Technology - IIT, che si occupa di meccatronica, e Inail. “Inizialmente Hannes era la mano di un robot, uno strumento atto ad afferrare. L’innovazione tecnologica che l’ha traslata a protesi è la presa adattiva. Il nostro intervento ha modificato innanzi tutto il tipo di movimento, che è diventato più simile a quello umano dopo aver modificato gli assi di rotazione”.

La mano umana ha dita che convergono quando si chiudono e, riprodurre questo tipo di asimmetria era necessario per rendere più accettabile la protesi ai pazienti. “Abbiamo progettato il comportamento di una macchina, di una tecnologia, perché fosse bioispirata e potesse avere una sua dimensione estetica senza scimmiottare la pelle umana”. L’industrializzazione e la scalabilità sono sempre gli altri obiettivi della collaborazione fra competenze: “Una protesi di questo tipo costa molto. Per trasformarla in prodotto accessibile c’è bisogno di un team e di strutture in grado di proporre tecnologia e capacità di industrializzazione”.

“L’unico team in cui credo è quello transdisciplinare”, rilancia Giulio Iacchetti a commento del progetto G Bottle, due contenitori che conservano e trasportano l’acqua depurata con il sistema a induzione tridimensionale G Plant della impact company svizzera GratzUp. “Anzi, trovo che sia una modalità di lavoro rilassante, in cui ci si concentra sulle proprie competenze senza pensare di poter fare tutto”. Il progetto secondo Iacchetti è un buon fluidificatore, crea un amalgama migliore e supporta la comunicazione fra competenze. “Gli aspetti tecnici, dati incontestabili, sono grandi stimoli. Più se ne evocano, meglio è per sublimare le zavorre e volare oltre i limiti”. E l’intervento del design in cosa consiste, concretamente, quando si parla di nuove tecnologie? “Il tema dell’involucro è fondamentale. Non voglio dire che è necessario creare sovrastrutture: ogni cosa in natura cerca di alleggerirsi e liberarsi, non sarò certo io a tentare il contrario. Ma è l’aspetto delle cose che scatena l’emozione, il legame, il rispetto per l’oggetto e per le sue funzioni. La prestazione emotiva è a monte di quella funzionale, soprattutto quando si parla di oggetti che finora non sono mai esistiti”.

Conferma anche Mauro Gazzelli, fondatore di GratzUp. “Ho scelto di lavorare con Iacchetti solo sulla base di una simpatia umana. Ho sentito istintivamente l’importanza di intervenire in modo intelligente sull’aspetto e su alcune funzioni di G Bottle perché è la parte di prodotto che entra in relazione con le persone”. Il contesto è quello dei territori in cui è necessario depurare l’acqua per evitare la trasmissione di malattie. “G Plant è la medicina, se così si può dire. È la soluzione a un problema. Il lavoro di Giulio è il bacio della mamma: quello senza il quale la medicina non funziona”.

Una metafora di grande tenerezza per spiegare che colori, forme e funzioni della G Bottle sono frutto di un’attenzione umana che consente di rendere comprensibile e accessibile la tecnologia. E questa è davvero la grande opportunità per il design del presente. E anche della scienza, a dir la verità.