Il design è fondamentale per realizzare un’economia circolare: ma solo se riesce, anche quando progetta il micro, a cogliere le problematiche macro

Cosa c’entra il design con l’economia circolare? È una domanda a cui è difficilissimo o facilissimo rispondere: tutto dipende da cosa si intende con la parola design.

Se si considera il design un orpello, un’aggiunta estetica, è impossibile coglierne il ruolo strategico. Ma quando lo si osserva nella sua accezione più ampia e corretta – di disciplina che sottende tutte le attività legate alla produzione industriale – il suo ruolo potenzialmente chiave nel passaggio da un’economia lineare a una circolare appare immediatamente evidente.

C’è infatti design – cioè progetto – in ogni momento che porta alla creazione del valore attraverso il prodotto: dal concept alla produzione, dalla distribuzione alla comunicazione all’esperienza dell’utilizzo. Sono anche progettati i servizi, le relazioni tra i marchi e i loro pubblico e persino il fine vita dei prodotti.

Ma non è tutto. C’è infatti sempre stato design anche in tutte le strategie che hanno portato all’iperconsumo: sono infatti progettuali cioè in tutte le tattiche messe a punto negli anni da imprese (e governi, come quello americano, soprattutto in tempi di recessione) per promuovere l’obsolescenza programmata dei prodotti e quindi aumentare la produzione.

Un legame strettissimo con l’industria che ha reso quindi il design complice dell’insostenibilità del sistema economico in cui viviamo. Ma proprio per il suo essere in aderenza quasi totale con il mondo della manifattura e della produzione, oggi il design può essere uno strumento di fondamentale importanza per cambiare le cose da dentro. Per passare cioè da un sistema in cui il valore è generato attraverso l’estrazione di materiali, la loro lavorazione e trasformazione in prodotti che vengono venduti e poi finiscono nella stragrande maggioranza dei casi ancora oggi in discarica; a uno in cui il valore rimane in circolo, rigenerandosi continuamente. Un’economia circolare.

Per promuovere e sostenere questo passaggio il design deve però uscire da quello che Leyla Acaroglu (designer e sociologa, Champion of the Earth del United Nations Environment Program nel 2016 e creatrice Disruptive Design Method) chiama il folklore ambientale. Ossia il considerare ‘eco’ tout court alcuni materiali (come il legno o la carta), sistemi produttivi (come quelli che utilizzano materiali di recupero) e comportamenti (come il riciclo) senza inserirli in un’ottica più ampia. Perché alla sostenibilità servono molte discipline, valutare l'impatto ambientale è un lavoro specialistico ma alimentato dalla multidisciplinarietà e da molteplici punti di vista.

Per chiarire questo concetto basti pensare al famoso caso studio delle cannucce di plastica rispetto a quelle di metallo, posizionate come l’opzione alternativa green in quanto riutilizzabili. Quante volte, però? Per saperlo bisogna calcolare l’impatto del prodotto lungo tutto il suo ciclo di vita, dal momento in cui si estrae il materiale per realizzarlo a quando lo si lavora fino al momento dell’uso e del fine vita. Si chiama Life Cycle Assessment ed è una pratica fondamentale – basata su dati e processi scientifici – per progettare in modo cosciente, per agire laddove serve e non dove pensiamo che serva (basandoci, appunto, sul ‘folklore ambientale’).

E così, calcolando che l'energia utilizzata per produrre una singola cannuccia di metallo è equivalente di quella impiegata per realizzarne 90 in plastica, si arriva a constatare che la CO2 emessa per una cannuccia di metallo è 150 volte superiore a quella emessa per una di plastica. E che quindi solo dopo aver utilizzato 150 volte una cannuccia di metallo questa sarà meno impattante di una in plastica.

Sono moltissimi i casi – come quello sopracitato delle cannucce – in cui l’impatto ambientale di un prodotto dipende più dall’uso che ne fa il consumatore finale che dalla produzione e per scoprirli è necessario un Life Cycle Assessment. Si scoprirà così, per esempio, che è più impattante il processo di cottura della pasta nelle nostre case del suo trasporto e la coltivazione del grano rispetto alla produzione. E che la maggiore emissione di CO2 durante l’intero processo di vita di una maglietta è quello che avviene attraverso il lavaggio in lavatrice. O, ancora, che meglio del sacchetto di carta al supermercato (malgrado sia riciclabile), sarebbe portarsi la sportina da casa, anche se di plastica (anzi, meglio se di plastica di buona qualità, che dura a lungo).

Talvolta, quindi, per avere un impatto positivo sull’ambiente, è più necessaria una campagna di comunicazione progettata per cambiare l’uso che il pubblico fa di un certo oggetto più che una riprogettazione dell’oggetto stesso.

Lavorare in questo senso significa ampliare il campo d’azione del design, inserendo ogni decisione progettuale in un’ottica sistemica, quella del System Thinking, ormai diventato materia di studio nelle università del design e perno dell’innovazione cosiddetta disruptive. Funziona grossomodo così: se la richiesta è diminuire l’impatto ambientale di un’asciugatrice, un approccio tradizionale è quello di migliorare la prestazione del prodotto esistente, mentre uno sistemico consiste nel pensare all’obiettivo finale (asciugare la biancheria) e trovare soluzioni alternative per ottenerlo (il che potrebbe significare lavorare su tessuti autopulenti o su lavatrici più performanti).

Sembra un compito arduo perché lo è. Il System Thinking Design si basa infatti sulla capacità di navigare una complessità in cui nulla è totalmente buono o cattivo, in cui non si ha paura di creare valore con qualcosa di diverso dalla produzione tradizionale e in cui niente cambia grazie a un’iniziativa eroica isolata ma, come spiega la Ellen MacArthur Foundation, solo in virtù di collaborazioni ampie, informate e motivate tra realtà diverse, all’interno e al di fuori delle aziende. Per arrivare a fare di più con meno.

Non è una decrescita, felice o infelice che sia. Ma un modo diverso di mantenere in vita il valore dei materiali già in circolo grazie a una progettazione strategica fin dalle origini. Che significa disegnare i prodotti perché possano essere riparabili, ricondizionabili, riutilizzabili, condivisibili e solo in ultima istanza (e meglio se solo in alcune parti) riciclabili. E inventare sistemi per permettere alle imprese di guadagnare attraverso strategie diverse dalla sola produzione (in molti casi – come quello di Floow2, il marketplace della condivisione di attrezzature e funzioni business-to-business – già in funzione, con grandi benefici per tutte le parti in causa).

Diceva Buckminster Fuller, il grande architetto inventore e futurologo americano, che “non si cambieranno mai le cose combattendo il sistema esistente ma solo costruendo qualcosa che lo rende automaticamente obsoleto”. In quanto disciplina ponte tra le persone e la produzione, creatore di esperienze, interfacce e relazioni tra uomini, cose e servizi, il design ha il ruolo fondamentale di spostare il focus del suo modo di fare innovazione verso il macro – verso il sistema –, per poi occuparsi con la cura e la passione di sempre, oltre che con molte informazioni in più, di un micro – il prodotto, il servizio o l’esperienza.

 

 

In apertura e nell'articolo, le foto del nuovo Beogram 4000c Recreated Limited Edition, nato dal ripristino e dal rinnovo dello storico giradischi Beogram serie 4000, progettato nel 1972 da Jacob Jensen per Bang & Olufsen. Si tratta del primo prodotto a essere rilanciato nell’ambito del progetto Classics, volto a rigenerare e reinterpretare i pezzi classici del catalogo dell'azienda danese.

“L'iniziativa è nata dall’impegno di Bang & Olufsen a preservare la longevità dei prodotti, per offrire ai nostri clienti un oggetto di valore anche molti anni dopo l'acquisto, racconta Mads Kogsgaard Hansen, alla guida del progetto Classic. “Nel mondo dell’elettronica di consumo, la maggior parte dei prodotti sono considerati usa e getta, i nostri invece sono costruiti per resistere alla prova del tempo”. L’iniziativa attesta l'atemporalità del design di qualità, oltre a rivelare i principi base del progetto che possono prolungare la vita dei prodotti futuri. Un esempio di design circolare.