Nuovi punti di vista su progetto e sperimentazione artistica: una discussione con galleristi e designer

Negli ultimi anni assistiamo a un crescente interesse per l’espressione artistica pre-imperialistica, in particolare africana.

Troviamo creativi della diaspora di quel continente nelle selezioni di gallerie del design da collezione, agli eventi commerciali dell’arte contemporanea come Frieze, Art Basel e MiArt o, sotto l’istanza critica degli studi sul post-colonialismo, nelle ultime edizioni della Biennale di Arte e di Architettura di Venezia.

La Serpentine di Londra ha in corso una personale dell’artista diasporico londinese Yinka Shonibare CBE (fino all’1 settembre) che invita a riflettere sull’impatto ecologico della colonizzazione e sull’eredità dell’imperialismo mettendo in discussione l’iconografia occidentale.

“C’è stato un interesse di lunga data per l’espressione artistica africana, ma confinata all’arte tradizionale”, precisa Olivier Chow, fondatore della galleria Foreign Agent di Losanna, specializzata in arte africana contemporanea.

“Come è stato per l’arte cinese negli anni Novanta, piattaforme come 1-54 Art Fair e svariate mostre museali hanno spinto questa tendenza. E movimenti come il Black Lives Matter hanno portato a una maggiore diversità, rappresentanza e inclusione per gli artisti neri e altri gruppi emarginati dal mondo dell’arte”.

Trevyn McGowan, cofondatore di Southern Guild, una galleria di Città del Capon che da anni promuove artisti africani nei principali circuiti occidentali, aggiunge: “Il mondo dell’arte in Europa e negli Stati Uniti ha bisogno di imparare da ‘altre’ voci e di ascoltarle.

Questi artisti hanno qualcosa di importante da dire, usano i materiali in modi completamente nuovi, escogitano tecniche di loro creazione, le sfidano e le sconvolgono.

Molti degli artisti che rappresentiamo quali Madoda Fani, Rich Mnisi e Zizipho Poswa usano il loro lavoro come un canale per esplorare, portare alla luce e preservare forme tradizionali di conoscenza e spiritualità, antiche cosmologie e mitologie e per celebrare la bellezza degli oggetti e delle forme artigianali che si tramandano da generazioni”.

Più verticale il progetto di Interlude Rwanda (fino al 25 ottobre), curato da Nicolas Bellavance-Lecompte con Bonita Mutoni e Cristina Romelli Gervasoni e finalizzato a promuovere, attraverso allestimenti in tre edifici simbolici lungo tutto il Rwanda, la vivacità della scena artistica locale in un momento in cui nel Paese si distingue stabilità e crescita economica.

“La mostra è frutto di un mentoring nell’arco di un anno e mezzo in cui abbiamo realizzato oltre cento opere con dieci artisti del luogo. Tutti i progetti hanno un legame col territorio e la storia della nazione. Per esempio Medard Bizimana, uno scultore del nord del Paese, lavora la pietra vulcanica in oggetti site specific per le cucine e le dispense del re.

In Rwanda, il fil rouge comune agli artisti è la necessità di rileggere la propria storia attraverso tecniche o modalità radicate nel territorio ma ricercando dei segni molto personali.

Dopo il genocidio di trent’anni fa, che anche qui abbiamo voluto mostrare per non dimenticare, c’è la necessità di ricollegare una storia interrotta.

Più in generale, il fiorire dell’espressione del cosiddetto “sud globale” nasce dall’esigenza di liberarsi del passato coloniale, che però è ancora presente in tanti di questi Paesi, per dare voce a queste economie emergenti”.

La designer londinese Simone Brewster chiarisce un aspetto importante del fenomeno: “La diversità è qualcosa di cui si discute da molti anni nella sfera del design e la crescente consapevolezza a cui stiamo assistendo è in gran parte guidata dai designer di colore”.

Le opere della Brewster, infatti, sottendono la volontà di rappresentare un’espressione culturale africana e non occidentale all’interno del design, proprio in risposta a una perdurante mancanza di rappresentazione.

I creativi del colore”, continua Brewster, “sono incentrati sulla propria eredità in modo autentico. E l’interesse che si sta registrando è dovuto all’alta qualità del lavoro e, si spera, alla volontà di abbracciare una gamma più ampia di ispirazioni, storie e principi estetici. Riconoscere l’esistenza di una diaspora africana significa ammettere che non esiste solo una storia o una cultura. Più approfondisco, più comprendo quanto ciò sia affascinante e quanto ci sia ancora da imparare dall’Africa, da cui trarre ispirazione”.

L’approccio artistico e progettuale dei creativi africani sottolinea modi alternativi di rispondere a quesiti esistenziali o a istanze comuni a tutto il Pianeta, come quella ecologica. “Mi piace il modo di riciclare di artisti come Hamed Ouattara e Bibi Seck”, continua Chow.

“Il riciclo è oggi una questione globale ma nel continente africano è praticato da molto tempo a causa della difficoltà nell’approvvigionamento di materiali. Per molti artisti locali è un monito sullo stato del mondo e sui rifiuti che produciamo, spesso esportati dall’Occidente in Africa”. E McGowan aggiunge: “C’è un senso tangibile della manipolazione e della presenza del corpo umano nel lavoro di molti, insieme al raggiungimento di altri regni spirituali e all’impegno nell’azione personale e collettiva.

Cheick Diallo rimodella metalli di scarto, corde da pesca e ritagli di pelle utilizzando tecniche artigianali dell’Africa occidentale, mentre Andile Dyalvane danza con l’argilla mentre la avvolge e invoca i suoi antenati Xhosa. Molti degli artisti che rappresentiamo immaginano nuovi percorsi che onorano la tradizione e definiscono un senso di sé espanso dove la complessità di passato, presente e futuro può fiorire”.

Una ricchezza di stimoli tutti da scoprire. Quali prospettive possiamo cogliere noi, estimatori occidentali, dall’arte africana? “C’è ancora molta formazione da fare”, conclude Chow.

“L’Africa è spesso percepita come monolitica, oppure attraverso un prisma coloniale o cliché negativi, quando in realtà esiste una moltitudine e una eterogeneità che supera quella occidentale”.

E McGowan conclude: “Spero che la lezione africana e diasporica porti a una maggiore consapevolezza di come le eredità coloniali hanno plasmato il modo in cui il mondo occidentale comprende l’arte e il contesto in cui viene realizzata. E auspico che presto si parli di arte beninese, sudafricana ed etiope anziché, genericamente, ‘africana’”.