Dal manometro all’ombrello, tutto ha bisogno di essere disegnato. Il progetto è sempre più una questione di esplorazione e incursioni intelligenti in settori alternativi

L’ultimo progetto di Giulio Iacchetti è un manometro. Il penultimo un gadget intelligente e ironico per una marca di dentifrici. E l’ultimo Compasso d’Oro, nel 2014, è stato per un tombino. Non è quindi strano Iacchetti sia un grande sostenitore di escursioni lontane dal design comunemente inteso, ovvero quello dell’arredamento. Non è l’unico, naturalmente, ma Iacchetti è una delle voci tonanti del progetto italiano e ormai fa scuola anche senza volerlo. Il futuro del design quindi è altrove, in mondi non fatti solo di tavoli e sedie?

“Contro lo scoglio rappresentato da un’azienda come Magis si sono infranti i sogni di molti giovani progettisti. Forse non tutti sono nati per disegnare mobili per aziende di così alto livello” conferma Giulio. E spiega: “Come sempre il mio interesse è andare a esplorare aree lontane dal cliché del nostro mondo di riferimento. Una prateria sterminata di oggetti che danno molta soddisfazione, perché sono settori vergini”.

Secondo Iacchetti il sistema design italiano manca di quell’autocritica che consente di capire se il design ha un senso, se aggiunge intelligenza alla funzione e qualità formali alla relazione con gli oggetti. “Io voglio sapere se un oggetto funziona. E mi piace pensare al ruolo del missionario: le aziende con cui lavoro spesso non hanno bisogno di me, non erano alla ricerca di un designer. È l’ideale per capire se il design è necessario, se serve”. È la ricerca di territori vergini e relazioni con brand che hanno uno sguardo innocente sul progetto

La parte stupefacente è che aziende di questo tipo siano aperte a sperimentare. In fondo cosa convince un produttore di oggetti destinati ai meccanici a lavorare con un designer? Dietro c’è sempre una storia interessante. Nel caso di Iacchetti ha spesso a che fare con la sua infanzia e la famiglia d’origine cremasca: “Ho pubblicato su un social un manometro appartenuto a mio cugino gommista e che trovavo ben disegnato. Non sapevo che fosse prodotto da Wonder Auto, l’ho scoperto quando mi ha contattato Matteo Gosi, il suo proprietario. Arrivo nelle nuove aziende sempre con un progetto già in mano, pur senza volerlo imporre”. Matteo Gosi però sta lavorando ha un manometro digitale, uno strumento diverso da quello ipotizzato da Iacchetti. Il progetto quindi cambia connotati, si costruisce come un guscio protettivo di gomma intorno al cuore tecnologico e delicato dello strumento.

Come si traduce il plusvalore del progetto in un’azienda come Wonder Auto? “Non esiste un gommista che compra un manometro perché l’ha visto su Domus: questo mi tranquillizza. Perché so che il valore, forse anche poco percepito, si infonde però nell’uso quotidiano”. Uno strumento di lavoro che viene manipolato senza grandi delicatezze, in un ambiente non asettico ma vivo come quello di un’officina. Bello pensare a un pezzo di Iacchetti appoggiato sotto il calendario tipico del gommista, che non è quello di Pirelli.

Un percorso progettuale analogo è quello di studio Pocodisegno, duo torinese giovanissimo. In primavera ha lanciato nell’etere, è proprio il caso di dirlo, un ombrello pensato per essere riparabile. È ancora in cerca di produttore, ma la stampa ha colto il messaggio al volo: l’ombrello U211 è stato pubblicato ovunque.

“Siamo andati a trovare Enrico Baleri e lui ha sistematicamente distrutto tutti i nostri progetti. Ma ci ha dato in cambio una grande consapevolezza: il design risponde alle richieste della realtà e delle persone, non al nostro ego” spiega Fabrizio Gagliano. Un’immersione curiosa nella manifattura artigianale degli ombrelli da cui nasce una riflessione sulla riparabilità di oggetto considerato quasi universalmente usa e getta. “È chiaro che il design ancora ha da dire molto in aree non frequentate dai progettisti. È entusiasmante”. Ed è anche una buona notizia, per diverse ragioni.

La prima è di ordine economico: la relazione fra brand e designer funziona molto bene quando le aziende vendono tanto. Altrimenti difficile sbarcare il lunario da designer. E non tutti nasciamo Konstantin Grcic, Antonio Citterio o Odoardo Fioravanti. “Sono giunto alla conclusione che forse ci vogliono competenze straordinarie per lavorare con i grandi brand del design italiano. Forse non sarò mai capace di lavorare per Cassina, o per Magis”.

Se non riesci a lavorare con le aziende di design, riflette Giulio Iacchetti, semplicemente non sei all’altezza. “Io ho provato a ragionare con Kartell, ma a distanza di anni riguardo quei progetti e li trovo deboli. Sappiamo benissimo che ci sono aziende blasonate in cui è difficile entrare, che applicano una selezione giustamente severa. E credo di aver detto quello che potevo nell’ambito dell’arredo. Basta, la mia vita è piena di altre cose, di altre tipologie di prodotto e di mondi da esplorare”. 

 

In apertura e sopra, l’holder progettato da Giulio Iacchetti per Marvis, un overcap da montare sul tappo del dentifricio che diventa un oggetto colorato e giocoso in grado di allargare la base d'appoggio del tubetto, così da renderlo self standing.