L’urgenza del presente mette ansia e cancella la prospettiva. Per questo temiamo tante forme di innovazione. Ne abbiamo parlato con un esperto, che dice: il domani va occupato

L’ultima miccia l’ha accesa Midjourney, il software text to edit (ovvero: assegna un brief all’Intelligenza artificiale e lei ne ricaverà un’immagine) entrato a sorpresa qualche mese fa nel mondo del progetto e vissuto subito come una minaccia da architetti e designer.

Una prova in più del fatto che è quasi sempre la paura ad accompagnarci alla porta, quando bussa il futuro.

Perché? Lo abbiamo chiesto a Roberto Paura, autore di un saggio, edito da Codice Edizioni, che ripercorre il rapporto dell’uomo con il futuro e lancia un messaggio preciso, racchiuso nel titolo: il futuro va occupato, proprio come le scuole e le università.

Innanzitutto, si parla abbastanza di futuro nei media?

“Tantissimo, se per futuro intendiamo la semplice parola.

È anzi uno dei termini più abusati dal marketing, dalla propaganda politica, dal mondo dell’innovazione, per non parlare di quello della formazione.

Di contro, l’attenzione al futuro inteso come dimensione del lungo termine è del tutto assente dal discorso pubblico, dominato dall’urgenza del presente”.

Perché parliamo del futuro più come di qualcosa che ci fa paura che di una sfida?

“Quando è usato come slogan, il futuro è sempre visto in modo positivo: lo si usa come sinonimo di innovazione, cosa che ovviamente non è.

Il futuro è semplicemente il posto dove vivremo nei prossimi anni e può essere qualsiasi cosa, a seconda di come agiamo nel presente. Quando si esce dalla retorica futuro = innovazione, allora i discorsi diventano più problematici.

Ne è un esempio Fridays for Future, che utilizza questo termine per enfatizzare la mancanza di attenzione nei confronti della principale sfida di lungo termine che abbiamo di fronte, quella del cambiamento climatico. Qui il termine futuro serve proprio a ricordarci che se il cambiamento climatico è una realtà ciò dipende dalla nostra incapacità di immaginare il futuro, anticipare le conseguenze sul lungo termine delle nostre azioni e decisioni”.

Se pensiamo al futuro, alla persona più ottimista viene in mente Hyperloop o la vita su Marte…

“Esatto, le utopie tecnologiche. Almeno dal Novecento la nostra idea di futuro è schiacciata sulla prospettiva del progresso tecnologico.

Non è un caso: la dinamica più dirompente che caratterizza la nostra epoca è quella della legge di Moore, che definisce la crescita esponenziale della capacità di calcolo dei processori.

Questa crescita esponenziale è dietro la rivoluzione informatica, Internet, gli smartphone, i social network, l’intelligenza artificiale, il metaverso, fino alla New Space Economy.

Il problema è che, mentre stiamo vivendo un cambiamento accelerato sul piano tecnologico, i nostri modelli di vita restano gli stessi di cento anni fa o giù di lì.

Per esempio, non siamo in grado di immaginare alternative alla società fondata sul lavoro cinque giorni a settimana per otto ore al giorno fino alla pensione, con il risultato di essere impreparati agli shock del mercato dell’occupazione prodotti dall’innovazione tecnologica e di fare degli anziani solo un costo per la società.

Oppure, vogliamo andare su Marte per creare colonie, come nell’Ottocento…”.

Midjourney o ChatGPT: perché la reazione dei più è la paura e pochi ne approfittano per lavorare sugli input?

“Le intelligenze artificiali come Midjourney o ChatGPT ci costringono a riconsiderare il nostro concetto di creatività.

Il fatto che siano in grado di scrivere racconti e articoli di giornale o creare spettacolari illustrazioni quanto e spesso meglio di molti di noi ci spinge a comprendere come spesso abbiamo chiamato lavoro creativo quello che in realtà non era altro che manovalanza intellettuale.

Queste IA non fanno altro che automatizzare ed efficientare processi routinari, del che dovremmo essere grati: l’obiettivo è esattamente quello di lasciare più tempo al vero pensiero creativo, che costituisce l’essenza dello spirito umano.

Se sapremo cogliere quest’opportunità, allora ne beneficeremo come esseri umani. In caso contrario, diventeremo tutti neoluddisti: eppure nessuno oggi si sognerebbe di distruggere un telaio meccanico per passare dieci ore al giorno a filare”.

Lei considera il presentismo uno dei mali del nostro tempo. Che cosa è?

“È l’abitudine a considerare il presente come l’unica realtà possibile, la realizzazione del vecchio motto thatcheriano there is no alternative.

Ci porta a immaginare il futuro come una mera estensione del presente (un presente aumentato, semplicemente più veloce e performante) e il passato come un insieme di errori dai quali ci saremmo affrancati.

È l’effetto della post-modernità, che proprio nel prefisso post ammette l’incapacità di pensare che possa esistere qualcosa di completamente diverso.

Alternativa al presentismo è il tempo profondo, la capacità di concepire la nostra posizione nel tempo come un minuscolo segmento in un continuum che, come civiltà, si estende per almeno diecimila anni nel passato e che dovremmo provare a immaginare anche nei diecimila anni a venire, garantendo alle generazioni a venire le risorse per forgiare il loro presente”.

Perché viviamo in una continua retropia senza fine, come la chiamava Bauman?

“In tempi di incertezza, il passato rassicura. Anche il futuro-passato, come nel caso del retrofuturismo. Fa parte del nostro inconscio l’idealizzare l’epoca in cui eravamo bambini, quando non avevamo problemi: basti pensare che i nostri nonni spesso idealizzavano anche il periodo dell’ultima guerra, tra le bombe e la fame.

Oggi c’è anche un fenomeno curioso, la nostalgia per un’epoca mai vissuta (l’hanno chiamata in vari modi, a me piace molto il termine anemoia). È causata dal modo in cui l’immaginario collettivo forgia le nostre aspettative: un immaginario fortemente orientato a idealizzare il passato fa sì che anche la generazione Z abbia nostalgia per gli anni Ottanta, che non ha mai vissuto.

Il problema è quando pensiamo che le sfide del futuro possano essere risolte con le soluzioni del passato; è un’illusione pericolosa che finisce sempre per provocare disastri”.

Come portare il futuro nella nostra vita, almeno sotto forma di dibattito?

“Ho proposto il concetto di occupare il futuro, che ha dato il titolo al saggio, come provocazione sul modello di Occupy Wall Street. Guardiamo al futuro come una dimensione che ci è stata sottratta, colonizzata da chi oggi dispone della capacità di dettare le regole.

Parafrasando Orwell, chi controlla il futuro, controlla il presente.

Rendiamoci conto, cioè, che il nostro immaginario del futuro non ci appartiene ma ci viene imposto da altri, cosicché introiettiamo le loro aspettative e i loro obiettivi: andare su Marte, vivere nel metaverso, creare un ibrido uomo-macchina, avere droni che consegnano in poche ore i prodotti ordinati su Amazon.

A queste visioni di futuro proviamo a contrapporre le nostre.

Come ci piacerebbe che fosse un modo completamente diverso dal presente? Siamo in grado di immaginarlo? Se la risposta è no, magari facciamoci aiutare anche da quella fantascienza che ha preso coscienza del problema e ha iniziato a contrapporre alle visioni classiche del futuro delle visioni nuove, come il solarpunk. Abituiamoci a pensare che un altro mondo è possibile”.