“Ritornare a camminare per le strade della città durante Milano Design City è stato emozionante, un’esperienza intensa”. Patrick Norguet – in visita all’Istituto Marangoni durante la Interni Designer’s Week (guarda qui la video intervista) – lo spiega con il candore di chi è realmente felice, con l’entusiasmo di chi ritorna a casa.
Milano per il design è proprio questo, probabilmente. Il luogo di convergenza principe, la matrice di un modus operandi ideale e il luogo di incontro, una volta all’anno, di chi si occupa di inventare il mondo e le sue funzioni. Ma questo ormai è scontato.
La novità, macroscopica e ineludibile, è che il Covid ha spazzato via la socialità. Non solo per i designer, gli imprenditori, i giornalisti che vivono il Salone e il FuoriSalone come se fosse un Natale pagano. Ma per tutti. E in Italia le cose difficilmente accadono senza incontro fra le persone.
“Mi sono precipitato a fare tutti i controlli sanitari per poter essere qui in occasione di Milano Design City” continua Norguet. “Avevo davvero bisogno di respirare quest’aria, di rivedere showroom e negozi, di presenza fisica di cose e persone. Qui c’è una vitalità unica, se parliamo di progetto”. È un fiume in piena che comunica un sentire molto chiaro: la nostalgia. I giorni di settembre hanno concesso un respiro sono stati un’occasione per ricongiungersi con qualcosa che somiglia più a una grande famiglia che a un sistema produttivo. Il luogo centripeto e irresistibile che riesce a legare, adottare, creare parentele progettuali e imprenditoriali. Non c’è niente da fare: anche il design è una questione di d’amore, in Italia. Milano è la terra madre, un luogo mitico, unanimamente riconosciuto come il centro.
Cosa è mancato esattamente quest’anno? “Il Salone, certamente. Ma anche il lavoro in presenza con gli imprenditori” spiega Norguet. Segue una descrizione definitiva dell’alchimia progettuale che si crea quando ci si siede intorno a un tavolo con un manager come Giuliano Mosconi, ceo di Zanotta. “Si passa una giornata insieme e alla fine il brief è inevitabilmente: fai tu!” Un via libera che produce, secondo il designer, un pacco di schizzi spesso tre centimetri. Qualche speranza che questo possa accadere anche in remoto? “Poche, a dir la verità. Il dialogo è davvero la scintilla che rende possibile il progetto” conclude il designer.
Philippe Starck, dal suo confinement in mezzo alla foresta francese, affermava invece un modus operandi radicale, solitario, riflessivo. “Il mio modo di lavorare si inscrive completamente in un sistema che va dalla scrivania al letto” commentava, soddisfatto di potersi finalmente concentrare diciotto ore al giorno, in pace monacale.
L’esatto contrario della struttura di collaborazione conviviale e partecipata che moltissimi designer e architetti descrivono quando parlano di progetto. Soprattutto di quello sviluppato per e con le aziende italiane. “L’umanità degli imprenditori italiani è caotica, autoritaria, difficile” racconta Alfredo Haberli. “La motivazione umana è fondamentale. L’alchimia è importantissima. C’è un’amicizia che viene corroborata dalla presenza”. Non è solo una questione di humus culturale quindi. “La differenza sta nella relazione umana” insiste il designer argentino. “Un legame di fiducia e di rispetto che consente di attingere alla creatività e di spingersi oltre”. Quindi si può parlare di amicizia, di affetto? “Non c’è dubbio. È una relazione di affetto, un legame emotivo desiderato, cercato. Si prova nostalgia, si condividono preoccupazioni, si coltiva il desiderio di rivedersi”. Una storia d’amore, insomma.
Forse è una questione di passione, appunto. Di fuochi creativi, certo, ma anche intellettuali. Di curiosità e di apprendimento. “Ogni volta che si fa un progetto in Italia è come fare un PhD” spiega Luca Nichetto. “E Milano è il luogo dove ci si incontra tutti, una volta all’anno. Una boccata d’aria veramente necessaria, divertente, piena di incontri che ispirano e fertilizzano”. Come se la città lombarda avesse inventato delle hackathon planetarie di design? “C’è un’expertise diffusa, un vocabolario condiviso fra imprenditori, designer, artigiani. Si impara molto, ogni volta qualcosa di nuovo. L’innovazione è veloce e costante, e la conoscenza si trasmette molto rapidamente quando c’è una relazione diretta. Non è necessario parlare la stessa lingua: anche fra stranieri e artigiani c’è un’intesa perfetta”.
Soft skill e apprendimento continuo sono anche i pilastri del remote working, non solo della convivialità progettuale. Conferma Marco Susani, che insieme a Defne Koz lavora da due decenni dagli Stati Uniti: “Senza saperlo gli americani hanno applicato le competenze della progettualità italiana nel modello della start up. Per fare innovazione ci vuole la leggerezza strutturale e l’autorevolezza di un imprenditore che è anche inventore”. Una descrizione di un’imprenditorialità autoriale e di un’audacia innovativa che prolifera in tutte le scuole di marketing creativo degli Usa. Ma che in Italia esiste da decenni, in modo spontaneo: peccato non averne saputo mettere in luce le dinamiche in modo più strutturato.
Dunque progettare in remoto si può quando si hanno gli strumenti digitali adatti? “Certamente. Ma avere una cultura comune aiuta a evitare errori grossolani” aggiunge Defne Koz. “La vera differenza, nel lavorare a distanza, è avere una base comune, un linguaggio condiviso che traduce la sintonia di obiettivi e di percorsi. Spesso negli Stati Uniti ci accorgiamo che anche grandi aziende non hanno un dipartimento di design con cui confrontarsi”.
In questo momento, quindi, quello che conta è la solidità dei legami, la reciprocità emotiva e una cultura progettuale condivisa? Michael Anastassiades è categorico: “Quello che ci salva è che, alla fine, il design serve a trovare soluzioni ai problemi. Sono una persona fisica al cento per cento e in questo momento poter usare le mani è un’esperienza molto forte: non riesco a lavorare da casa, il processo della scoperta passa dal fare, dal costruire modelli”. La luce però ha un percorso progettuale complesso: come si riesce a comunicare con l’azienda? “Spedisco una copia del modello. È questo che intendo quando parlo di soluzioni: è difficile per tutti avere a che fare con la mancanza di fisicità. Ed è francamente impossibile parlare di luce in modo virtuale. Quindi facciamo due modelli e uno lo mandiamo in Italia. Apparentemente è più complicato che prendere un aereo e atterrare a Milano in un paio d’ore. Ma lo sforzo del design è capire come fare le cose in modo funzionale e umano”.
“La distanza dallo studio è stata dolorosa. E non poter lavorare con le persone in Italia, seduti intorno a un tavolo mi manca molto. Sono momenti incredibili in cui sembra che le idee galleggino nell’aria, a portata di mano. Basta prenderle” ammette Jay Osgerby dello studio Barber & Osgerby. La fragilità di questi mesi però affila le competenze umane: “Stiamo vivendo questo momento tutti insieme, è un’esperienza collettiva che trasforma le cose più semplici e scontate: i viaggi, il lavoro, gli affetti. E al contempo ridisegna i bisogni e le relazioni con il mondo. Troveremo altri modi per progettare e progetteremo cose diverse”, conclude il designer londinese.
Poi c’è la voce di chi da tempo progetta a distanza, in un virtuosismo comunicativo che fino a pochi mesi fa sembrava impossibile. Francesca Lanzavecchia vive a Pavia, Hunn Wai a Singapore. I fusi orari di mezzo pianeta li hanno obbligati a trovare una modalità di lavoro sensata a percorribile anche a distanza: “Abbiamo dei ruoli molto ben definiti e questo aiuta. E usiamo i classici strumenti di condivisione che usano tutti e che sono davvero utili a collaborare, soprattutto quando le giornate hanno ritmi così diversi. Ma ci ritagliamo sempre un’ora di comunicazione diretta, in sincrono, per allinearci” spiega Francesca.
Invece la distanza dalle aziende è un problema nuovo. “Il dialogo con gli imprenditori è ispirante, chiarifica gli obiettivi e crea una sintonia nelle visioni e nei desideri, anche non dichiarati. Stanno partendo dei progetti anche in questa modalità, ma sono certa che saranno progetti diversi. Il designer è allenato a gestire dimensioni, spazi, materie. Ma la relazione in presenza è così profonda che una telefonata all’imprenditore è come una telefonata fra parenti. Questa distanza significa non capire davvero come si fanno le cose: è un lutto”.