Makers è il titolo di un romanzo fantascientifico scritto da Cory Doctorow nel 2009. I protagonisti, due artigiani del futuro che inventano e lavorano senza sosta rinchiusi in un mall in disuso, cercano di combattere – novelli David 4.0 contro Golia – le grandi corporation.
Il libro non ha vinto Pulitzer, tantomeno è diventato un bestseller, ma ha messo al centro del dibattito il tema del lavoro e dell’innovazione centrato sull’individuo, sul fare pratico e sul concetto di comunità.
È un bene. Perché, come dice il più grande studioso del tema Richard Sennett, il fare tocca due aspetti fondamentali dell’essere umano. Da un lato dominare un mestiere socialmente riconosciuto ci permette di vivere con soddisfazione all’interno di una comunità. Dall’altro, nelle comunità che producono valore proponendo qualità, il saper fare è centrale al progredire economico delle comunità stesse.
Perché allora, soprattutto in Italia, così pochi giovani vengono indirizzati verso questo genere di mestieri?
“Credo che sia necessaria una campagna di sensibilizzazione per promuovere l’alta artigianalità. Che non è solo quella tradizionale, legata alle mani, ma anche quella digitale e il virtuosismo nell’uso dei macchinari industriali”, dice Stefano Micelli, docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari e autore di Futuro artigiano (ed. Marsilio). “Perché non è solo in gioco la sopravvivenza del made in Italy ma anche quell’importante ruolo di catalizzatore sociale che ha il lavoro: il mestiere dignitoso, che crea valore e inorgoglisce chi lo fa. Se siamo in grado di superare l’idea di consumo che segna la nostra economia, potremo rinnovare in modo originale legami sociali e di comunità”.
Serve quindi parlare di qualità, per spiegarne il valore aggiunto sul piano economico ma anche sociale. “In Italia c’è un legame molto esplicito fra lavoro e competitività perché i settori che portiamo come vanto del made in Italy continuano a mantenere un legame originale fra tecnologia e saper fare della tradizione”, prosegue Micelli. “L’orgoglio del fare è una risorsa chiave per molte delle imprese della moda, dell’arredo, così come della meccanica e dell’agroalimentare. Questo fattore specifico, tipicamente italiano, deve essere costantemente bilanciato con le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica.”
Ed è sulla parola innovazione che è necessario soffermarsi visto che per molti è in diretto contrasto con il saper fare, quello che tradizionalmente si associa all’artigiano che usa le mani. Ovviamente, l’artigianato che ha reso grande il made in Italy non è solo quello, ma anche tutto il mondo delle piccole imprese iper specializzate in lavorazioni di pregio, anche industriali, e capaci di realizzare, sperimentare e innovare esportando in tutto il mondo.
Molto sta cambiando negli ultimi mesi nel rapporto tra il mondo del saper fare e il digitale. Il lockdown ha costretto le imprese a un salto di qualità su questo fronte. Con il distanziamento sociale le tecnologie sono diventate essenziali: chi ha saputo spingere in entrambe le direzioni (più attenzione alla tecnologia e più attenzione al lavoro) ha dimostrato di poter crescere anche nelle difficoltà. E in sempre più imprenditori e amministratori si chiedono come coniugare il bisogno di mestieri significanti, cioè che oltre a darci da vivere aggiungano senso alla nostra esistenza di animali sociali, e quello di un Paese che da sempre vive sul saper fare e che si trova ora davanti a un momento di svolta.
“È fondamentale accelerare questa spinta. E per farlo ci sono due priorità”, dice Micelli. “Una nuova idea di scuola, più capace di assecondare artigiani di nuova generazione e makers. E una nuova idea di città, che contempli gli spazi dell’attività manifatturiera a fianco di quelli della cultura e della formazione. Se siamo in grado di promuovere le qualità del fare e di superare l’idea di consumo che segna la nostra economia, potremo rinnovare in modo originale legami sociali e di comunità oltre che l’industria”.
Per dare dignità al fare in tutte le sue sfaccettature la parola chiave è quindi formazione. Quella tecnica su cui l’Europa ha un primato soprattutto tedesco e svizzero, frutto di una grande tradizione ed eccellenza. A differenza dell’Italia, sono tanti gli europei che hanno tenuto alto lo status delle scuole tecniche senza degradare il loro status. Il made in Italy, eccellenza riconosciuta a livello mondiale, è uno dei settori cardine dell’industria manifatturiera italiana con le sue quattro A: Alimentare – vino in primis; Abbigliamento, la moda con tessuti, gioielli, occhiali; Arredo, il design della casa; Automazione. Eppure, da noi, le scuole in cui si impara un mestiere sono considerate di serie B.
“L’Italia ha una lunga tradizione legata alla formazione tecnica, da cui sono nati grandi imprenditori, tecnici, manager, coloro che di fatto hanno dato forma al made in Italy”, spiega Micelli. “Oggi, per portare avanti questa tradizione, il nostro Paese deve rinnovare questa capacità, investendo su formule nuove al passo coi tempi”.
Non si tratta solo di rilanciare le scuole di mestiere della grande tradizione italiana: il vetro soffiato a Murano, la ceramica a Faenza, la liuteria a Cremona, il mosaico a Spilimbergo e a Ravenna, l’oreficeria ad Arezzo e a Vicenza, la gioielleria a Valenza. Ma anche di pensare ai tanti ITS (Istituti Tecnici Superiori) e al centinaio di fondazioni attive in tutto il Paese, che offrono corsi biennali post diploma che permettono ai giovani di avvicinarsi alla moda, alla meccanica, al design dal punto di vista del fare. Che non ha nulla da invidiare al pensare, visto che il focus rimane su innovazione e orientamento all’industria 4.0.
Tra gli orgogli di casa nostra: l’ITS TAM di Biella è un’eccellenza nella cultura del settore tessile, con corsi che vanno dai processi tecnologici alla progettazione e design, passando per confezione e maglieria. Ai ragazzi viene insegnato come lavorare sulle nuove tecnologie con una grande attenzione verso la sostenibilità. Nel campo della meccanica, l’ITS meccatronico di Vicenza, che eredita la storia del prestigioso Istituto Rossi, è una palestra per i nuovi protagonisti della chimica, elettrotecnica, meccatronica e biotecnologie. Balzato agli onori della cronaca durante il lockdown, un ITS di Brescia che, in collaborazione con un FabLab e un’azienda bresciana specializzata in progetti innovativi, ha trasformato una maschera da snorkeling in un respiratore. Non c’è solo il Nord Italia a ospitare strutture innovative. In Abruzzo l’I.I.S. Savoia di Chieti è un istituto che contribuisce a ripensare la moda attraverso la tecnologia e la sostenibilità.
Il futuro potrebbe essere già qui.