Lo sci per Marc Sadler, lo skateboard per Virgil Abloh. E gli hobby sbocciati in pandemia per molti altri. Ecco come le passioni si riflettono (o no) nel lavoro dei progettisti

“Se non avete un hobby, lasciate perdere”. 

D’accordo, la frase di Achille Castiglioni non è esattamente questa. Il maestro, nella sua massima diventata popolarissima, parlava in realtà del bisogno di essere curiosi per diventare dei bravi designer, e non di quanto importante fosse avere un hobby.

Eppure, ci sentiamo di azzardare che se mai il maestro avesse previsto un corollario al suo monito, quasi sicuramente avrebbe parlato dell’importanza di avere una passione, di quella dedizione speciale e di quella cura che si usano nel tempo libero come in quello per progettare. La stessa passione, per dire, che il “Cicci” metteva nel collezionare quegli oggetti di design anonimo, di tutti i giorni, che dopo aver acceso la sua curiosità, scatenavano uno tra i più vivaci istinti progettuali del Novecento. 

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Del resto, chi può più dire con certezza, nel mondo digitale e digitalizzato, quale è il confine tra il tempo del lavoro e il tempo per se stessi? Se quella linea è sempre più labile, specialmente da quando la pandemia ha mischiato le ore in casa, allora è normale come forse lo è sempre stato pensare che tutte le attività che dedichiamo a noi stessi e alle nostre passioni finiscano poi per riversarsi dall’altra parte, nei nostri progetti, dando vita a una specie di entropia positiva in cui diventa impossibile tornare indietro e scindere il lavoro dal tempo libero, proprio come in un cappuccino non potremmo più scindere il latte dal caffè. 

Prendiamo il caso di Liza Lou. Kitchen, la cucina costruita interamente con perline colorate e completata con una casualità incredibile all’alba del primo lockdown, nel marzo del 2020, per finire in una (bella) installazione al Whitney Museum of American Art di New York, è un capolavoro certosino di dedizione artigiana in cui la designer riversa tutto il suo amore per il fatto a mano. 

Sarebbe poi difficile, in tutt’altro campo, pensare al curriculum zeppo di Compassi d’Oro e di altri premi internazionali di Marc Sadler senza conoscere il peso della sua passione per lo sport, a partire dallo sci. E infatti all’origine del primo scarpone da sci in materiale termoplastico, anziché in cuoio, progettato proprio da Sadler all’inizio degli anni Settanta (e commercializzato da Cabler, la futura Lotto) c’è una brutta frattura multipla e scomposta al piede e alla caviglia destra che spinse il designer a ingegnarsi su come costruire un prodotto in grado di immobilizzare la caviglia all’interno di uno scarpone rigido. Dato a margine, ma non marginale: il materiale di quello scarpone era pure riciclabile, e questo derivava da un’altra passione del Sadler studente: la plastica, indagata fin dalla tesi di laurea, preparata nel 1968, all’Ensad di Parigi. 

Difficile, anche, immaginare che cosa sarebbe potuto diventare Virgil Abloh senza la passione, coltivata fin da bambino, per lo skateboarding. Un filo lungo tutta una vita che emerge dal modo di Abloh di guardare al mondo e alla creatività. Perché lo skateboard è un meccanismo perfetto di prova-errore-successo. Oltre che un modello open source. Basta saper osservare: qualcuno nel gruppo inventa un trucco che tu puoi riprendere variandolo, in una catena incrementale in cui, alla fine, non si sa bene chi ha iniziato ma è evidente quanto tutti siamo andati lontano. Un modo diverso di spiegare la teoria dello stesso Abloh per cui la creatività sta nel 3 per cento di innovazione che il singolo riesce ad apportare.

Sono rari i casi di designer che, interrogati sul punto, ammettono di non avere hobby particolari. E certo il fatto che a questo club ristretto appartenga uno come Philippe Starck può far vacillare la tesi dell’importanza per un designer di avere una passione da coltivare nel tempo libero. Quando invece, come nella maggior parte dei casi, un hobby c’è, non è detto che ci sia una corrispondenza precisa tra questo e la cifra progettuale dell’autore. In questo senso, i due anni pandemici hanno molto da raccontare.

Chi conosce Lorenzo De Rosa, con Ernesto Iadavaia anima di Sovrappensiero Design Studio, ne apprezza le doti di designer industriale e poi scopre le sue qualità di artista nella serie di opere realizzate con carta, vetro e vinile, partita proprio al tempo del lockdown. “Mi piaceva l’idea di provare a fare qualcosa di slegato dalla professione di designer, che mi desse la possibilità di lavorare senza vincoli, con la soddisfazione di vedere realizzato in breve tempo qualcosa che immagino, senza badare alle richieste del cliente, al mercato, ai vincoli, alle tendenze”. Come dire: il design aspira alla libertà, ma il designer per realizzarla deve sempre aprire la finestra e guardare fuori.