Stando alla celebre ipotesi formulata da James Lovelock nel 1979, tutte le attività umane si inseriscono in una prospettiva evolutiva, anche quelle inquinanti. Il mondo del design è dunque chiamato oggi a dialogare con l’ambiente in un rapporto di consapevole interdipendenza. Al di là di ogni retorica green

Quando insegnavo una strana materia al Politecnico di Torino – si chiamava Ontologia della Progettazione – negli anni ero arrivato a spiegare la progettazione essenzialmente in due modi: la rappresentazione del futuro, anticipato nel disegno di un qui e ora, e poi, anche se è meno chiaro, la traduzione in creatività culturale dell’algoritmo evolutivo che ci ha generato biologicamente.

Ogni cosa è naturale, anche quella più culturale: la frattura tra natura e cultura è saltata in aria da un pezzo, ed è una questione oserei dire ottocentesca.

Esiste forse, al massimo, una natura primaria, che è quella più ovvia e immediata, e poi una secondaria fatta di artefatti materiali nostri, animaleschi, e certo anche vegetali.

Ma è comunque una distinzione parziale, perché c’è il reale e basta, e poi c’è quello che il reale significa per noi. La progettazione rappresenta uno di questi modi.

Un tempo chiamavamo 'ipotesi Gaia' questo insieme di nodi concettuali con cui la Terra stessa si pensa e modifica: dunque non è che ci siano progetti più o meno evolutivi o biologici, ogni progetto lo è per definizione in quanto espressione di una forma di vita.

Esiste una progettazione speculativa, diversa certo da quella operativa, ma sulla quale vale la pena riflettere proprio oggi che l’ipotesi Gaia
ha compiuto quasi quarantaquattro anni.

Fanno parte di Gaia, quindi sono dotati di comportamenti pienamente naturali, tutti quegli organismi che crescono e si riproducono sfruttando ogni possibilità che l’ambiente concede; che sono soggetti alle leggi della selezione naturale darwiniana; modificano costantemente il loro ambiente chimico-fisico – cosa che avviene incessantemente come semplice effetto di tutti quei processi fondamentali per la vita come la respirazione e/o la fotosintesi; che stabiliscono limiti superiori e inferiori delle condizioni per la vita: le temperature possono essere eccessivamente alte o basse per l’affermarsi della vita in un dato ambiente, e lo stesso discorso vale per le concentrazioni di sali minerali o composti chimici.

In tal senso – ed è qui il portato ancora rivoluzionario di questa teoria – anche il fattore più inquinante possibile fa parte dell’intero sistema, dunque ovviamente anche le attività e l’ambiente costruito dall’uomo, visto che interagiscono fortemente con la biosfera modificando i fattori limitanti.

Questa teoria, anche se molto criticata, ha stabilito una convenzione non-new age per cui abbiamo un’idea della Terra stessa intesa come un insieme integrato o un essere vivente: come noi abbiamo i virus, che pure possono ucciderci ma fanno parte di noi, la Terra ha gli umani che magari non la uccidono ma la rafforzano.

L’implicazione di tutto ciò è evidente: un progetto 'green' non è meno darwinisiticamente orientato di quanto non lo sia il fattore più inquinante di tutti: ogni cosa, in Gaia, è funzionale al finalismo evolutivo del meta-organismo di cui stiamo parlando.

Nel 1985, durante il primo convegno di ricerca sull’ipotesi Gaia (Is the Earth a Living Organism?) presso l’Università del Massachusetts, e poi nel 1988, con la ormai storica conferenza dell’American Geophysical Union su Gaia a San Diego in California, si è iniziata a distinguere l’ipotesi Gaia in due diverse modellazioni: 'Gaia debole' – la vita tende a rendere l’ambiente stabile per ‘favorire’ lo svilupparsi della vita stessa – e 'Gaia forte' – la vita tende a rendere l’ambiente stabile per ‘permettere’ lo svilupparsi della vita stessa.

Esplicitamente o implicitamente, tutta la teoria della progettazione contemporanea ha accettato l’ipotesi 'debole', rifiutando direi abbastanza decisamente quella 'forte': si progetta nella consapevolezza di dover favorire quella che i teorici postumani chiamano 'alleanza tra umani e terrestri', nella non destituzione di nicchie ecologiche dove la nostra specie potrà continuare a vivere.

Evidentemente, se dovessimo in assoluto permettere lo sviluppo della vita, date le condizioni dello sbilanciamento totale del sistema di tenuta ambientale che oggi conosciamo bene, dovremmo semplicemente smettere di progettare.

Sistemi di architettura verde (pensiamo a Stefano Boeri), sistemi di architettura post-rurale (pensiamo a Francis Kéré), sistemi di architettura e design organico (pensiamo a Neri Oxman) sono tutti modi di considerare con consapevolezza ipotesi deboli di Gaia provando a ragionare da virus o batteri intelligenti: perché portare Gaia a liberarsi di noi (dato che il sistema generale ci sopravviverà abbondantemente) se possiamo tentare di allearci col sistema almeno affinché favorisca anche la sopravvivenza dei suoi stessi virus?

La metafora del sistema immunitario in architettura è importante, o almeno lo è nell’architettura e nel design speculativo: un sistema può sopravvivere o crollare, ed è evidente che prima o poi ogni cosa tende alla fine…

Ma perché accelerarla se è in gioco, anche egoisticamente, la sopravvivenza di una parte del sistema che poi è quella che noi stessi rappresentiamo?
L’ipotesi Gaia e la progettazione si sono incrociate ufficialmente per la prima volta a Valencia, in Spagna, il 23 giugno 20001 in una conferenza che si concentrava sui meccanismi specifici mediante i quali deve caratterizzarsi questa omeostasi.

Per omeostasi si intende l’attitudine propria di tutti i viventi a mantenere intorno a un livello prefissato il valore di alcuni parametri interni, disturbati di continuo da vari fattori esterni e interni.

La progettazione di cui oggi dobbiamo discutere, in sostanza, deve essenzialmente servire a una visione che nel breve termine contribuirà a mantenere all’interno di una cornice un non troppo significativo cambiamento strutturale evolutivo a lungo termine.

Considerato tutto ciò, credo che sarebbe molto utile provare a organizzare un grande tavolo di lavoro su Gaia nel design e nell’architettura oggi: che sia una biennale, un congresso, una grande mostra, è necessario ri-orientare un quasi manifesto per una progettazione omeostatica, che è molto diversa da una retorica green o ecologista anche speculativa.

Perché? Perché alla tenuta generale del sistema possono contribuire oggetti apparentemente paradossali, anche poco ammantati da ‘aure verdi’, e perché non è detto che tutto ciò che ci sembri sostenibile poi, alla prova dei fatti di un sistema temporalmente più esteso, lo sia.

Ricostruire una foresta primaria potrebbe essere, dalla prospettiva umana, meno Gaia-oriented di quanto non lo sia una struttura di cemento partorita da Oscar Niemeyer.

Riflettere su una progettazione Gaia-dipendente può significare cambiare completamente punto di vista su quello che oggi si chiama geo-design. Ragioniamoci insieme… è urgente.