Questa teoria, anche se molto criticata, ha stabilito una convenzione non-new age per cui abbiamo un’idea della Terra stessa intesa come un insieme integrato o un essere vivente: come noi abbiamo i virus, che pure possono ucciderci ma fanno parte di noi, la Terra ha gli umani che magari non la uccidono ma la rafforzano.
L’implicazione di tutto ciò è evidente: un progetto 'green' non è meno darwinisiticamente orientato di quanto non lo sia il fattore più inquinante di tutti: ogni cosa, in Gaia, è funzionale al finalismo evolutivo del meta-organismo di cui stiamo parlando.
Nel 1985, durante il primo convegno di ricerca sull’ipotesi Gaia (Is the Earth a Living Organism?) presso l’Università del Massachusetts, e poi nel 1988, con la ormai storica conferenza dell’American Geophysical Union su Gaia a San Diego in California, si è iniziata a distinguere l’ipotesi Gaia in due diverse modellazioni: 'Gaia debole' – la vita tende a rendere l’ambiente stabile per ‘favorire’ lo svilupparsi della vita stessa – e 'Gaia forte' – la vita tende a rendere l’ambiente stabile per ‘permettere’ lo svilupparsi della vita stessa.
Esplicitamente o implicitamente, tutta la teoria della progettazione contemporanea ha accettato l’ipotesi 'debole', rifiutando direi abbastanza decisamente quella 'forte': si progetta nella consapevolezza di dover favorire quella che i teorici postumani chiamano 'alleanza tra umani e terrestri', nella non destituzione di nicchie ecologiche dove la nostra specie potrà continuare a vivere.
Evidentemente, se dovessimo in assoluto permettere lo sviluppo della vita, date le condizioni dello sbilanciamento totale del sistema di tenuta ambientale che oggi conosciamo bene, dovremmo semplicemente smettere di progettare.