La storia di un’isola dell’arcipelago di Capo Verde che ha convertito l’energia capitalistica in vitalità sostenibile

“Questa è una storia di infiniti andirivieni. Di uomini e donne che sono arrivati per obbligo o per avventura su uno scoglio scolpito dai fortissimi venti sahariani e da onde oceaniche che cambiano il senso del viaggio: l’approdo vale più del percorso perché equivale alla vita stessa”.

Edwin è un vecchio pescatore in pensione che trascorre le sue giornate su una spianata piena di reti a Cruzinha da Garça, piccolo villaggio di pescatori e di barchette colorate.

È la memoria storica di Santo Antão, isola vulcanica e montuosa, avamposto settentrionale dell’arcipelago di Capo Verde, a 500 chilometri dalla costa senegalese.

Terra d’esilio e di schiavitù fin dal XVI secolo, questo luogo ha vissuto principalmente di pesca e agricoltura tradizionale per la produzione del Grogue, rinomato rhum capoverdiano, fino all’arrivo del nuovo colonialismo bianco, il turismo.

“L’acqua ci circonda ma non penetra le rocce di basalto, mentre i venti inesorabili asciugano la poca pioggia sulla terra arida. Le grandi multinazionali europee della pesca stanno comprando tutto il nostro mare e affamano i nostri piccoli pescatori. È una vita dura, e i ragazzi vanno via in cerca di fortuna. Il turismo è cosa buona, è la nostra unica speranza”.

Eloisa e Moreno lo avevano sospettato quando nel 2015 un’agenzia turistica tedesca li contattò per la progettazione di una struttura alberghiera su 5 ettari di terreno a strapiombo sul mare. Qual è la chiave per disinnescare il neocolonialismo turistico che atterra, spiana e porta a casa con soluzioni in cui cooperazione, benefici reciproci, armonia tra uomo e natura concepiscano vita sostenibile per tutti?

Dal piccolo studio Ramos Castellano Arquitectos di Mindelo, nella vicina isola di São Vicente, Moreno prese il suo vecchio pick-up per andare a conoscere il sito, sulla costa settentrionale di Santo Antão, lungo il profondo canyon del fiume Ribeira da Garça, coltivato a canna da zucchero, oltre il piccolo villaggio di Chã de Igreja.

“Ricordo, era il 10 di maggio, il vento fortissimo lungo la scogliera verticale da cui si poteva ascoltare il canto delle balene. Era sera e il cielo stellato illuminava a giorno la mia tenda. Sono rimasto una settimana, senza acqua potabile, né luce, proprio lì, dove ora c’è il ristorante, di fronte al cimitero. Volevo capire come potevamo contribuire a tanta armonia del creato, tra l’imponenza delle montagne e lo splendore azzurro di Vega riflesso sull’oceano”.

Né dal mare, né dal cielo, l’acqua è arrivata dal germoglio di un ideale, che è diventato matita, schizzo e progetto. Così Eloisa ha disegnato tre ettari di superficie coltivabile, quattordici abitazioni doppie, quattro ville, un ristorante con sala bar, uno spazio per servizi, un volume multifunzionale panoramico, tre depositi d’acqua per l’irrigazione, un pozzo, una piscina.

Durante i primi due anni, venti operai del villaggio adiacente hanno lavorato cinque ettari di terra abbandonata trasformandoli in terrazzamenti rigogliosi di piante fiorite, ortaggi e alberi da frutta.

Carote, patate, pomodori, cipolle, verdure, mango, papaya hanno cominciato a riempire il mercato locale abbassando i prezzi e cambiando la percezione degli abitanti nei confronti del bianco che compra le loro terre. “Abbiamo convertito l’energia capitalistica in vitalità sostenibile per l’ecosistema sociale.

Ribeira Grande si stava inesorabilmente spopolando. L’impiego di manodopera esclusivamente locale, la lavorazione di materie prime autoctone, l’acquisizione di nuove competenze hanno formato una nuova generazione di artigiani, invertendo i flussi migratori”.

Eloisa è nata su questa terra impervia, ha camminato per migliaia di chilometri sui bordi dei letti dei fiumi e vissuto il loro spogliarsi per scarsità d’acqua. Per questo il Biological Settlement in Chã de Igreja ha un cuore palpitante d’acqua: un pozzo a valle collegato a un impianto di dissalazione e una pompa idraulica pulsante grazie all’energia solare fornita da pannelli fotovoltaici terrazzati a ventaglio.

Ogni edificio è dotato di sistemi meccanici per filtraggio e riutilizzo delle acque grigie che, attraverso un sistema a goccia, irrigano la natura circostante. Lo studio delle correnti e della conformazione della terra ha dato alla luce percorsi multisensoriali in cui la vegetazione ricopre tetti, muri e terrazzi.

Il profumo dei fiori si diffonde tra discese e risalite dove, tra le curve di livello in pietre vulcaniche sollevate a braccia, tra una palma e un albero di avocado, appaiono appoggiate le stanze e le ville bianche con pelle di calce. Moreno ed Eloisa hanno sfidato il concetto d’opera d’arte totale, in cui l’ideale creativo, il percorso costruttivo, l’approdo estetico, l’agilità funzionale e il riferimento sociale coesistono tutti all’interno di una semplice scala armonica sostenibile.

“Abbiamo studiato la composizione dei volumi dopo aver individuato i punti protetti dai forti venti dominanti, al riparo dalla caduta di massi e con vista su valle e oceano.

Campeggiare qui durante molti periodi dell’anno ci ha aiutato a prevedere le possibili variabili climatiche durante i dodici mesi e a integrare il progetto con la montagna, come fosse una grande opera di land art”.

Le pareti delle ville sono state tirate su con pietra basaltica, ghiaia e sabbia recuperate nel letto del fiume sottostante e rinnovate a ogni stagione delle piogge. L’inerzia termica del basalto e la ventilazione trasversale garantiscono il comfort climatico evitando l’utilizzo di condizionatori.

Le radici della vegetazione piantata sui tetti diventa l’isolante perfetto contro surriscaldamento e umidità.

La sala multifunzionale semiellittica è ancorata sul versante più azzardato e assorbe le raffiche occidentali come un’alga oceanica, mentre il dorso ricurvo forato del ristorante flette le folate di vento che infieriscono da valle.

Negli interni e sugli arredi, disegnati dagli stessi architetti e realizzati da artigiani locali, riaffiorano le impronte di quell’andirivieni di uomini e donne che non ce l’hanno fatta ma che tuttavia rivivono ineluttabilmente nel nostro capitale umano.

In copertina, Veduta panoramica dall’interno del Tempio, spazio multifunzionale  per incontri, yoga, meditazione, verso il versante occidentale
di Santo Antão. Di spalle, gli architetti Eloisa Ramos e Moreno Castellano che ascoltano il suono delle balene rimbalzare sull’impressionante costa vulcanica.

Progetto di Ramos Castellano Arquitectos - Eloisa Ramos, Moreno Castellano. Foto e testo di Sergio Pirrone