Una new wave di oggetti dalla forte carica espressiva attraversa in maniera trasversale gli interni reali e quelli virtuali, dando doppia risposta al bisogno di solidità e immaginario dell’utente post-pandemico

La famosa fotografia scattata da Henri Cartier-Bresson a Parigi di un uomo intento a saltare in una pozza d’acqua suscita nello spettatore il senso di un passato (perché l’uomo sta saltando?) e di un futuro (lo specchio d’acqua, ancora perfetto, sta per essere infranto). La bellezza di questa foto sta proprio nella capacità di sfruttare il potere evocativo delle immagini che portano l’osservatore a percepire più di quanto vi sia rappresentato, considerandole i frammenti di un più ampio, ancorché indefinito, arco narrativo. Un meccanismo simile è all’opera in quello che Alessandro Mendini definiva “design narrativo”, quel particolare approccio al progetto d’arredo che negli anni Novanta ha segnato la fine della fase storica del design e l’inizio dell’epoca contemporanea.

A partire da quel momento, infatti, il design ha intrapreso un lavoro di ricucitura della spaccatura che si era aperta nel periodo precedente tra razionalismo moderno e design postmoderno, procedendo a una loro armoniosa saldatura attuata attraverso la rimodulazione – ma non l’azzeramento – dell’intensità artistica del prodotto, che trova così una forma più matura e delicata, compatibile con le istanze funzionaliste care al modernismo. Questa formula, che da allora unisce poetica e pragmatica nel progetto contemporaneo, appare oggi più viva che mai, al punto da costituire la via maestra per la fusione, propria della nostra epoca, tra corpo materiale del prodotto e scenari immateriali del digitale.

Per capire la portata di questo fenomeno occorre ricordare come la caduta del meteorite postmoderno aveva frantumato i quadri storici del progetto, liberando energie creative di difficile controllo che avevano dato vita da un lato a esperienze estreme come lo spericolato empirismo olandese, dall’altro a una serie di sforzi (prevalentemente italici, ma presto imitati anche all’estero) per la riaggregazione di queste energie attorno al centro gravitazionale di vigorose narrative di progetto. Sono questi ultimi a convergere nel design narrativo che, caratterizzato da un nucleo di prodotto 'solido' da cui sgorga un’atmosfera poetica diffusa, offre la chiave per la ricomposizione post-pandemica della cultura del progetto.

L’accelerazione verso quello che sembra prefigurarsi come uno stadio post-reale del design ha di recente assunto un abbrivio tale da vedere la diffusione di oggetti immaginari in formato esclusivamente virtuale, come se i byte fossero un nuovo materiale che si affianca ai tradizionali legni, schiumati e polimeri (si veda Interni n. 711, Materialità dolce). Ma questa accelerazione, per quanto rapida, non può lasciarsi alle spalle l’oggetto fisico. Estetica digitale e struttura materiale hanno bisogno di una formula di integrazione che salvi forza e necessità di entrambe, e tale è appunto quella del design narrativo, ovvero del prodotto 'espanso', che mantenendo la centralità dell’oggetto reale evoca un più ampio racconto, 'emanato' come un’onda che attraversa l’intero ambiente domestico, a sua volta 'esteso' tramite le proiezioni digitali sui social e nelle videoconferenze.

Ne sono esempi divani dal respiro 'paesaggistico' come Asymmetry di Pierre Yovanovitch e Nexi Chic di Andrea Arena per Aerre Italia: intessuto di trame in filigrana il primo, erede delle sperimentazioni storiche sulla morfologia dell’imbottito il secondo. O come i tavolini della collezione Fat & Slim di Alain Gilles per Faïencerie de Charolles, le cui volumetrie nascono dal dialogo tra due concetti formali estremi, quello morbido e paffuto della base in ceramica e quello teso e sottile del piano in metallo. Mentre ancora più espliciti nel loro essere 'frammenti galleggianti' di un mondo perduto/ritrovato sono i pezzi della collezione Flowing Fragments di Richard Yasmine, fraseggi archeologici post-postmoderni che riesumano l’aura di una grande geografia di senso sepolta tra le cose.

Il 'rebooting' che la pandemia ha causato nel mondo del progetto (si veda Interni n. 703) ha ulteriormente intensificato il bisogno di oggetti-ponte tra un 'prima' materiale e un 'dopo' digitale, oggetti cioè che, come la lampada Cactus e i vasi Bola di Carol Gay, esibiscono la stessa efficacia estetica sia sui social media che nel mondo reale. E invero l’affinità di questi progetti ai codici visivi dell’arte è tutt’altro che occasionale, come si vede accostando l’arazzo Concrete n°17 di Marei Rei allo specchio Giddy di Pierre Yovanovitch, o i pezzi che compongono l’opera Misfits dell’artista Nairy Baghramian presso la GAM di Milano con il divisorio Feng disegnato dallo studio Testatonda per Gebrüder Thonet Vienna o con il già citato Nexi Chic.

La continuità di paesaggio che questi accostamenti mostrano è tanto evidente da autorizzare un ulteriore salto concettuale, e, come un tempo si parlava di “arte applicata” riferendosi a oggetti realizzati con grazia artistica, così oggi si può parlare di arte come di “design non applicato”, riconducendo i linguaggi dell’arte a quelli del design. E realizzando così un’inversione 'epistemologica' che conferma l’attualità del design narrativo, àncora anatomica da cui il corpo esteso del prodotto sgorga come una radiazione semiotica di fondo, che si allarga a risemantizzare l’ambiente domestico e da questo l’intera dimensione estesa dell’abitare attraverso i canali digitali, fino alle propaggini “in remoto” della comunicazione sui social.