Una riforestazione che punta tutto sulle interazioni tra le specie autoctone più resistenti, per dare vita in soli pochi anni a vere e proprie mini foreste autonome e lussureggianti. Ce ne parla l'autrice di "Mini Forest Revolution"

Ripopolare il pianeta di foreste è fondamentale per contenere il cambiamento climatico.

Uno dei metodi apparentemente più efficaci per la riforestazione, perché permette di raggiungere risultati significativi in un lasso di tempo molto breve, è quello inventato dal botanico giapponese Akira Miyawaki che utilizza piante autoctone resistenti e spontanee nelle porzioni di terreni in disuso e nei cortili delle grandi città. Gli obiettivi del metodo Miyawaki - utilizzato in tutto il mondo - sono molteplici e tutti degni di nota: dal ridurre i livelli di inquinamento al regolare la temperatura, dal promuovere la biodiversità al riqualificare in maniera ecologica aree altrimenti in stato di abbandono e spesso di vero e proprio squallore.

Sul metodo Miyawaki è stato appena pubblicato un libro, edito da Chelsea Green Publishing, scritto da Hannah Lewis, autrice ed editrice specializzata in ecologia e scienze: "Mini Forest Revolution".
Ce lo siamo fatti raccontare dall'autrice.

Cos'è il metodo Miyawaki?

Hannah Lewis: «L'idea di base di questo metodo è quella di far crescere una ricca foresta naturale in appena un paio di decenni, senza dover attendere centinaia di anni per avere piante robuste e mature.

Questo viene reso possibile da una scrupolosa fase di osservazione di ciò che accade in natura nel sito scelto, per capire quali piante spontanee autoctone sono più adatte a riprodursi velocemente e a crescere in maniera autonoma, dunque senza ulteriori interventi umani, dando vita a un habitat naturale sano e forte.

Un tipo di studio che si interessa dunque al suolo, alla topografia e al clima. E va notato che non verranno necessariamente piantumati solo grandi alberi, ma anche cespugli e arbusti capaci di resistere e prosperare».

Ci sono regole particolari da seguire nella fase di avvio?

«Il metodo Miyawaki richiede una preparazione intensiva del terreno. Si chiede di seminare in abbondanza e in maniera molto fitta, mantenendo attivamente il sito per i primi 3 anni, quando la foresta si stabilizza e trova la sua forma di base.

Già dopo due anni i giovani alberi avranno formato una chioma sufficientemente spessa da ombreggiare le piante erbacee più basse, riuscendo a creare un microclima che protegge il sottobosco dagli agenti atmosferici estremi. A questo punto la micro foresta è autosufficiente e non necessita più di alcuna forma di manutenzione».

In cosa questo metodo è rivoluzionario?

«Di fatto questo approccio permette di accelerare di moltissimo il processo di crescita naturale di una foresta. Per questo dopo solo pochi anni si assiste a quello che accadrebbe a una porzione di terra rimasta intoccata dall'uomo per secoli. Rivoluzionario e affascinante».

 

Quando si è imbattuta nel lavoro di Akira Miyawaki?

«Quando la mia famiglia si è trasferita in Francia nel 2016, ho iniziato a lavorare da remoto per l'organizzazione no-profit Biodiversity for a Livable Climate con sede negli Stati Uniti. Il mio compito consisteva nel selezionare testi che evidenziassero i benefici climatici del ripristino dell'ecosistema locale. Facendo ricerca e documentandomi ho scoperto nel 2019 il metodo Miyawaki e ne sono rimasta folgorata».

Cosa l'ha colpita di questo metodo?

«Indubbiamente il contastare quanti effetti positivi abbia il coltivare una foresta di piante native. E il bello è che può bastare una superficie ridotta, per dire di 200 metri quadri, per ottenere effetti tangibili in termini di cambiamento climatico. Ho deciso di proporre un progetto di riforestazione secondo il metodo Miyawaki alla giunta della cittadina francese in cui vivevo e a documentarmi sui vari comuni che stavano piantando mini-foreste nelle aree abbandonate».

Abbiamo citato alcuni dei benefici innescati dalla riforestazione secondo questo metodo. Secondo lei quali sono i più importanti?

«Questi ecosistemi naturali sani abbattono le temperature su scala locale, regionale e globale, a seconda di quanti sono e quanto sono ampi. In generale il rewilding è un approccio di ripristino dei processi ecosistemici che aiuta a regolare qualsiasi ciclo naturale, dalla rete alimentare alla disponibilità di acqua. L'obiettivo è rendere queste aree verdi autonome».

 

Ed è vero che può bastare un piccolo appezzamento di terreno?

«Assolutamente sì! Si va da un cortile trasformato in giardino di piante autoctone a vaste aree selvagge laddove possibile».

In cosa differisce dalle altre tecniche di riforestazione?

«Il Metodo Miyawaki può essere visto come una tecnica di riqualificazione urbana. Nelle città questo approccio può stravolgere in maniera del tutto positiva il paesaggio metropolitano. E può assolvere allo stesso tempo a esigenze ornamentali e di abbellimento di un quartiere a bisogni di rigenerazione dell'ecosistema.

Invece di piantare alberi individualmente, in fila o in gruppetti, si stanno piantando alberi in relazione tra l'altro, in maniera densa, studiata, interconnessa. Quello a cui questo metodo punta è stimolare le interazioni tra le piante e il suolo, compresi i suoi innumerevoli e fondamentali microrganismi. Anche visivamente l'impatto è molto diverso dalla classica area verde alla quale siamo abituati: ci si trova di fronte a una fittissima macchia di vegetazione multistrato, ricchissima di varietà e vita».

Come si persuade una giunta a investire in questo progetto?

«Riconoscendo che è vero che il metodo Miyawaki richiede un'ottima conoscenza specifica e una spesa e un impegno iniziali significativi. Ma il vantaggio è che le specie piantumate sono destinate nel giro di pochissimi anni a diventare autosufficienti a non richiedere più manutenzione. Il tutto con il risultato di un'elevata biodiversità e di un ecosistema sano e bellissimo. Destinato a vivere indisturbato».