C’è qualcosa di ancestrale nel vedere Piet Oudolf che disegna i suoi giardini: il rumore dei pennarelli che tracciano cerchi, linee e blocchi di colore sulla carta spessa; le pause, i dettagli quasi incisi con il rapidograf. A ritrarlo in questa attività è Thomas Piper, autore di Five Seasons. The gardens of Piet Oudolf, presentato in Italia al Milano Design Film Festival 2017. E basta guardare questo straordinario documento per capire quanto sia intimo, premuroso e quasi spirituale ogni gesto che il gigante olandese, 78 anni e un grande ciuffo di capelli bianchi sul viso, dedica alle sue piante: quando disegna ci sono lui e loro, e niente altro conta. È il paesaggista più famoso al mondo (suoi i giardini di Battery Park e della High Line a New York, quello della Serpentine Gallery a Londra, il Lurie Garden al Millennium Park di Chicago), l’inventore di uno stile che ora è copiato un po’ ovunque. Eppure Piet Oudolf non ha un grande studio, né una pletora di collaboratori, né una gestione smart dei social media. Da quando ha iniziato a occuparsi di giardini (da ragazzo, dopo essersi innamorato delle piante lavorando un’estate in un garden center) disegna nella sua fattoria e cura migliaia di specie che fa crescere nella sua nursery con la moglie Anja a Hummelo, un paesino olandese a un tiro di schioppo dalla Germania. “Studio, collaboratori, social: tutto questo non mi interessa”, dice quando lo incontriamo alla Vitra Haus in occasione della presentazione del giardino che ha progettato su richiesta di Rolf Fehlbaum. “Ho ancora tanta sete di libertà, che trovo soltanto nel fare arte da solo. Non voglio entrare nei grossi circuiti, nemmeno quelli creativi. Io progetto e poi, per le realizzazioni, mi affido a studi esterni”.