Per la più giovane del gruppo Memphis, arte e il design confluiscono in una polifonia di associazioni e accostamenti che ridisegnano il rapporto tra le cose. Una mostra al Macro di Roma la racconta (fino al 20 giugno)

Il primo aspetto che colpisce entrando in Campo di Marte, la retrospettiva di Nathalie Du Pasquier al Museo Macro di Roma, è la maniera decisa e al tempo stesso rispettosa con cui l’artista ha preso possesso dello spazio. La grande sala, disegnata da Odile Decq nel 2010, è stata riportata dall’autrice a misura d’uomo, tinteggiandone di nero la copertura e immergendo dentro la sua visione progettuale tutto quello che va da una quota ‘domestica’ in giù. Davvero tutto: le uscite di sicurezza, le cabine tecniche, i pilastri – insomma tutti quegli elementi che di solito disturbano profondamente i progettisti – divengono al contrario felicissime occasioni per impaginare il mondo di Du Pasquier.

Il segreto di questa visione è nel guardare la realtà come fosse un inventario “dal quale possiamo prendere tutto e ritrasformarlo in un mondo altro”, come spiega l’artista, ottenendo quella che il curatore della mostra, Luca Lo Pinto, definisce una “pittura espansa”. Dentro questa retrospettiva si legge la trama di una vita intera, con una formazione da autodidatta, libera dai vincoli dell’accademia, fatta attraverso i viaggi e gli incontri. Come quello con Ettore Sottsass e il gruppo Memphis di cui sarà la più giovane tra i fondatori nel 1981 e che seguirà fino al suo scioglimento ufficiale nel 1986, data dalla quale inizierà a dedicarsi quasi esclusivamente alla pittura. Della giovane designer – ritratta insieme agli altri in quella foto sul letto Ring che sancisce nell’immaginario del popolo del design l’identità di Memphis – resta vivo un approccio che le è sempre stato proprio.

“L’aspetto progettuale tipico del design lo si percepisce più che altro dal modo in cui si è rapportata allo spazio espositivo che ha assolutamente stravolto. Nathalie è un’irregolare sia nell’arte che nel design”, spiega Lo Pinto, che ha curato già altre due precedenti mostre dell’artista a Vienna e Bruxelles. Per questo non è possibile parlare di quadri, oggetti, strutture e allestimento, ma diviene indispensabile ricorrere a termini quali Gesamtkunstwerk e polifonia, senza però che il risultato sfiori minimamente la saccenza dell’ipertrofia progettuale che fu propria delle ideologie moderniste. In altre parole, qui è tutta la mostra ad essere l’opera e Du Pasquier riesce “a rendere intima perfino una sala monumentale come quella del museo.

“Campo di Marte” è uno spazio immaginario dove la realtà è guidata dalla fantasia. Qui le singole opere per un momento abbandonano la loro identità specifica e diventano materia prima per una coreografia in cui si prestano ad associazioni e accostamenti continui”, prosegue Lo Pinto. Non esiste pertanto soluzione di continuità tra i vasi disegnati per Bitossi, i quadri a olio che hanno gli oggetti come soggetto, i disegni che entrano nei demoni interiori, le piastrelle per Mutina o le sculture astratte di legno che escono dal piano bidimensionale delle pareti per giocare con lo spazio attraverso le ombre. Tutto è reso in quella che lei stessa ha definito una sinfonia silenziosa, dove la presenza delle opere è in equilibrio col vuoto, col bianco della pagina parietale e con il nero dell’assenza, perché la pausa nella partitura musicale è un silenzio che vale quanto una nota. In questo ritmo il pattern è centrale, la decorazione ritrova il senso che le fu proprio in tempi di rapporto naturale tra l’uomo e le cose, quello del codice e del messaggio.

Così la mente collega questi motivi visivi ai codici da sempre utilizzati nell’arte tessile – non a caso parte centrale del lavoro dell’artista – e in particolare ai wax africani, conosciuti durante i suoi viaggi di formazione. Poche storie come quella delle stoffe africane, infatti, rappresentano il segno di un cross over culturale: nati in un contesto di importazione commerciale tra Indonesia e Olanda, i wax trovano la loro patria in Africa, dove le tecniche di stampa asiatiche si fondono con i messaggi figurativo-astratti di popoli abituati da sempre a parlare tramite segni e icone. E così come i wax si aggiornano nel tempo arricchendo i loro codici con i segni della contemporaneità, altrettanto i codici non verbali e alfabetici di Du Pasquier mescolano figura e astrazione lasciando tracce di significato e pensiero dove il fruitore è disposto a leggerle. Dal volume nuovo di uno spazio alla cornice di una preesistenza che già abitava quel luogo, la sua visione trasforma le cose e anche chi sa leggerne il codice silenzioso, ma molto eloquente.