Siamo abituati, dico noi che produciamo immagini attorno al design, ad immaginare le sedute, la luce, gli specchi, le librerie, come cose a disposizione degli uomini e, dunque, a magnificarne la forma, la materia, l’uso. Ma esiste un piano più sensibile nel quale mi piace pensare che gli oggetti possano essere calati e cioè le nostre storie perché che piaccia o meno ai designer, alle aziende, agli studiosi della forma, gli oggetti sono fondamentalmente testimoni della nostra esistenza.
Leggi anche: Le case che siamo (e che non siamo più)
I libri che leggiamo, le conversazioni, la musica che abita la nostra aria, i piedi, le ascelle, il culo, tutto, tutto di noi interagisce con loro, lasciando una traccia del nostro sentire, del nostro dolore, della nostra grazia.
Certo, compriamo e portiamo a casa gli oggetti perché ci piace la loro forma, la materia di cui sono fatti, la funzione che assolvono ma iniziamo ad amarli quando iniziano a farsi testimoni del nostro quotidiano, testimoni del fatto che esistiamo davvero. Ciascuno come può, ognuno con gli oggetti che sceglie. Mia zia Diana, a 80 anni circa, quando il suo parrucchiere ha chiuso bottega, ha comprato il casco sotto il quale, da giovane, era felice. E ora è felice ogni giorno.
Arredi presenti nel film:
Filo
Uto
— Foscarini
Nessuno (Specchio)
Tonie (Madia)
Blue e Cristal (Tavolini)
— Bam Design