Un progetto del Joint Research Center di Ispra, realizzato in collaborazione con il duo austriaco Honey & Bunny, racconta il potere della narrazione nello sviluppo di nuovi comportamenti sostenibili

Dall’alimentazione passano gli affetti, le abitudini e la condivisione, senza dimenticare la memoria: cosa può significare assaporare una madeleine, lo ha descritto magistralmente Marcel Proust.

Ma parlarne può essere persino estraniante, quasi disturbante: basta spostare l’attenzione sul cibo spazzatura, sulla sovrapproduzione alimentare, sugli scarti e sul suo impatto ambientale.

Il duo austriaco Sonja Stummerer e Martin Hablesreiter, a.k.a. Honey and Bunny, lo sa bene.

E ha appena pubblicato un interessante lavoro realizzato con Joint Research Centre/European Commission dal titolo Food Futures. Sustainable food systems. Ad aprirlo però si trovano geniali fotografie che ritraggono i due designer-architetti-performer in azione.

La Commissione Europea infatti li ha coinvolti con l’obiettivo di dare voce alle ricerche legate al programma strategico Farm to Fork messo a punto dalla UE per trasformare, entro il 2030, l’Europa in un paese Green, con un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente.

Un cambiamento notevole, che prevede di modificare profondamente il nostro modo di guardare il mondo. E per farlo, secondo Honey & Bunny, «Dobbiamo creare nuove narrazioni e nuove estetiche».

E come? Ne abbiamo parlato con Martin Hablesreiter.

«Abbiamo cominciato a lavorare nel 2019 e subito sono emerse questioni importanti. La prima riguarda i consumi. Un approccio che detesto! Sembra che il consumatore sia l’unico attore di questa storia, come dire: se consumi bene, allora ci sarà un cambiamento»

Nel vostro libro in effetti parlate del credo “Consumo dunque sono”. Può il singolo modificare il sistema economico europeo?

«No. E anzi, siamo convinti che questo credo serva a ridurre la pressione sui produttori, sul commercio e sui politici.

Siamo prima di tutto cittadini. Ce ne dimentichiamo perché definiamo noi stessi attraverso i consumi. E il design supporta questo sistema così bene che se pensiamo a qualcosa di sostenibile, pensiamo a un packaging.

Invece, noi designer siamo dei super eroi della trasformazione alimentare: dobbiamo chiederci come possiamo cambiare i beni e la loro produzione, ma anche come fare una narrazione di tutto questo.

Creiamo un’estetica e un’estetica contiene un linguaggio. Se si va al Rinascimento, Michelangelo o Leonardo erano delle perfette advertising companies per la Chiesa e la famiglia Medici!».

L’estetica è anche etica?

«Certamente. Un esempio evidente riguarda il feticismo per le automobili.

Sappiamo che la Ferrari è bella, ma è la conclusione di un messaggio politico che ha a che fare con l’idea che l’innovazione tecnologica sia buona.

In realtà fa un rumore infernale che ci siamo abituati a ritenere bello perché consideriamo tali i prodotti che hanno successo. Si chiama capitalismo estetico e dovremmo superarlo».

Quella del 2030 è una data possibile per la sostenibilità alimentare?

«Penso di sì. Il sistema globale della produzione alimentare in Europa è fatto per la maggior parte da famiglie e piccoli produttori.

Gli allevamenti intensivi delle mega-fattorie sono poco praticati e questo permette di raggiungere gli obiettivi del 2030, se lo vogliamo.

Per me è una questione di volontà, insieme alla considerazione di alcuni fatti, a cominciare dal calo dei prezzi del cibo, cominciata 50 anni fa, e dagli stipendi degli agricoltori, inferiori del 50% rispetto agli altri lavoratori. Il cambiamento passa di qui».

La strategia Farm to fork è uno strumento adeguato?

«Sì. Tra la fattoria e la tavola c'è un complesso sistema di produzione, commercio, consumo e spreco. Il cibo è anche una rete che collega scienza, innovazione, lavoro, impresa e cultura.

Con questa strategia messa a punto dall’Unione Europea, la questione diventa istituzionale, ed è fondamentale per uscire dalla logica del singolo consumatore, in favore di un discorso politico.

Penso che cambiare le abitudini alimentari e le tecniche di produzione sia più facile che modificare la mobilità o l’architettura».

Perché?

«Perché sono, appunto, abitudini. E le costruiamo noi ogni giorno.

Ogni passo che facciamo crea una nuova tradizione. Ogni secolo ha le proprie, anzi, a ben vedere ogni decade».

Per esempio?

«Quando ero piccolo, negli anni 70, nei paesi di lingua tedesca si diceva che l’Italia era molto bella, ma il cibo non era buono.

Negli anni 80 pasta e pizza sono state sdoganate, allora si diceva che in Italia il cibo andava bene, ma il pane no. Nei 90 Jamie Oliver ha esaltato il pane chiamato ciabatta e ora si dice che l’Italia produce il miglior pane nel mondo!

Ecco come funzionano le tradizioni. Ed ecco perché credo che bastino dieci anni per cambiare il nostro stile di vita. Il futuro è una nostra decisione».

Qual è la vostra ricetta?

«Nelle nostre performance e azioni artistiche si ridiscutono filosofie e teorie scientifiche. Non senza provocazione.

Il design ha da sempre la funzione di cambiare ciò che non funziona, ma questa espressione comprende tante cose: non funziona un oggetto, ma anche la relazione tra uomo e donna.

Se ci occupiamo di quest’ultima, avremo altre questioni da analizzare per capire cosa creare a favore dell’uguaglianza tra i sessi. Sono le grandi domande della cultura il motore del cambiamento».

Cos'è per lei la cultura?

«Tutto. Il modo in cui puliamo la casa è cultura, il modo in cui mangiamo, come ci vestiamo… Ed è l’uomo a fare cultura, modificandola ogni momento».

E l’arte agisce come un booster…

«Sì! Come Tom Cruise sul suo aereo» (ride)

Non è un’immagine proprio sostenibile…

«O no per niente... Ma eravamo negli anni 80!».