Complice la Fondazione Symbola e ADI , la ricerca dedicata a 35 designer, under 35, rivela il ritratto di una generazione che sta progettando un mondo diverso

Davide Groppi sostiene che comunicare è per il design una pratica cartesiana: comunico ergo sum. Un assunto che cozza fragorosamente contro l’attitudine apparentemente sfuggente e riservata dei designer under 35.

Perché è difficile scovarli, capire cosa fanno, avvicinarli. La ragione principale è semplice: chi divulga la cultura progettuale spesso lavora sotto il cappello semantico della parola “casa”. Ma questi designer nuovi non disegnano sedie.

Fondazione Symbola, in collaborazione con Adi, con la ricerca 35 designer, under 35, presentata durante l’ultimo seminario a Mantova nel giugno 2024, ha cercato di colmare il vuoto di comunicazione per dare un volto e un’identità ai giovani designer.

Grazie a questo prezioso lavoro, Interni oggi può dare voce a questi giovani progettisti, per capire chi sono, cosa fanno, in cosa eccellono. E per costruire una nomenclatura di un Made in Italy ancora in divenire.

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Punto 1: meno “casa”

Il terreno d’azione non è più quello domestico. I nuovi designer sono dei game changer, come tali si occupano praticamente di tutto senza indulgere alla tentazione di salvare il mondo.

Perché il cambiamento si fa per piccoli passi, non con le rivoluzioni, intervenendo sui dettagli, con pazienza e una buona misura di modestia. Gli under 35 non gridano, non contestano, non fanno proclami.

Hanno superato il tormento ideologico e, soprattutto, non credono che il mondo cambi grazie a un divano.

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Punto 2: migliorare l’esistente

Osservare con curiosità e poi rompere gli schemi, con fiducia. Un atteggiamento che lo zen consiglia come pratica laica: se qualcosa può essere migliorato, allora è il momento di cambiarlo.

La tecnologia è lo strumento più ovvio che il design usa con intelligenza per portare risposte significative ai temi urgenti della crisi ambientale, dell’iperconsumismo, dell’iniquità sociale.

Punto 3: empatia

Millennial e GenZ non sono generazioni contestatrici. Non vogliono la tabula rasa. Sono attente e aperte alle conversazioni intergenerazionali, lavorano volentieri con persone più giovani e più vecchie.

Coltivano uno sguardo empatico verso i diritti civili, la protezione dell’ambiente, la cura e l’accudimento di ogni essere vivente, umano e non. Con calma e decisione, e con progetti pragmatici, decostruiscono tabù, bias, pregiudizi.

Hanno la certezza che tutto si può rimediare, nel macro e nel micro, nei processi industriali come nella vita delle persone, in tutto il mondo e in ogni cultura.

Punto 4: i maestri

Li conoscono da lontano, attraverso le loro parole e i loro progetti. Sono figure ormai mitologiche, amate e studiate con reverenza. La nuova generazione di progettisti torna a leggere e citare le parole precise dei maestri del passato. E nei loro progetti si vedono le ombre bonarie e sagge dei gesti progettuali che hanno fatto il made in Italy.

Punto 5: il coraggio

I designer nuovi non si spaventano davanti a nulla. Che sia l’intelligenza artificiale o l’agricoltura, sono pronti a confrontarsi e a lavorare negli ambiti più diversi. Il segreto è la disponibilità alla co-progettazione: i problemi, semplici o complicati, si risolvono lavorando con esperti di altre discipline, senza aver timore di dover imparare cos’è un micelio o come funziona un algoritmo di riconoscimento facciale.

Punto 6: la sindrome dell’impostore

Fanno fatica, molta fatica, a definirsi designer. Perché la parola in sé è ancora troppo legata a mondi e significati molto lontani dal lavoro che veramente fanno gli under 35. Spesso affermano di soffrire di “sindrome dell’impostore”, candidamente.

In realtà sono progettisti capaci, a volte geniali, a volte semplicemente molto preparati e rigorosi. E fanno esattamente quello che avrebbe fatto Ettore Sottsass se fosse nato negli anni Novanta.