Il design come alternativa al pensiero di essere condannati: 4 piccole ma significative storie di progetti pragmatici per promuovere il ri-uso, il riciclo e la sostenibilità sociale

Ogni generazione di giovani cresce con dei mostri all’orizzonte. Alle ultime due, rispettivamente Millennial e GenZ, è toccato il mostro climatico.

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A differenza di quello della bomba atomica o della guerra globale che ha vissuto la Generazione X, il clima è uno di quei mostri contro cui si può provare a combattere.

Ed è quello che stanno facendo con progetti molto pragmatici e molto piccoli - che spingono al ri-uso, all'utilizzo di scarti o alla promozione di una sostenibilità sociale diffusa - due giovani designer e aziende (fondate da designer).

I loro sono interventi piccoli, idee che sembrano quasi un nulla davanti alla gravità del problema. Ma in mancanza di scelte politiche globali, la crisi climatica si combatte così, colpo su colpo, modificando abitudini minuscole, trovando soluzioni più silenziose e leggere, ampliando gli orizzonti dei materiali e, soprattutto, combattendo la sensazione di impotenza.

Ecco: una delle qualità del design è che è un’alternativa al pensiero di essere condannati.

Movo: non buttare quella busta!

Il nome completo è Movopack, per gli amici Movo. Un brand che davanti all’aumento esponenziale delle vendite on line e delle conseguenti spedizioni, trasforma la logistica in un servizio sostenibile. Ovvero: Movopack ha ideato un packaging riutilizzabile e il relativo servizio di restituzione al mittente.

Funziona così: Movo fornisce buste e scatole in polipropilene riciclato che nascondono un'etichetta prepagata per la spedizione via posta. Chi riceve il pacco deve solo sfilare dalla tasca nascosta l'etichetta, ripiegare la busta o la scatola come da istruzioni sul sito di Movo, infilare il tutto in una buca delle lettere.

C’è qualcosa di romantico nel ricevere un pacco a casa, lo sappiamo. È una memoria ottocentesca. Movo porta il mood ai suoi limiti: vi invita a ripiegare la busta come facevano le nonne, che non buttavano via niente ed erano molto più sostenibili, e a imbucarla.

Per evitare fraintendimenti con i più giovani, che si chiedono spesso cosa siano quelle scatole rosse lungo le vie della città, sul sito si trova una mappa per identificare la buca delle lettere più vicina a te.

Un approccio al progetto molto organico, che entra nei dettagli per risolvere le criticità, nell’idea di Movo. Ed è un approccio tipicamente “dei giovani”, che contraddistingue un diverso modo di essere designer.

Innanzitutto l’intelligenza di fondare un’impresa: inventare una busta sarebbe stato un passo troppo piccolo. Poi la semplicità che sta alla base del processo di restituzione: etichetta prepagata, tasca per nasconderla quando non serve e farla apparire quando serve.

Istruzioni per piegare il packaging, possibilità di restituire i prodotti al fornitore, e belle personalizzazioni di buste e pacchi. E poi c’è l’onestà: Movo dichiara in modo trasparente che le buste sono riutilizzabili fino a venti volte. Poi vengono riciclate. Non è LA soluzione, ma è un passo avanti.

Endelea, un progetto per un fashion brand etico

Endelea in swahili significa “andare avanti senza arrendersi davanti alle difficoltà”. Molte parole swahili traducono un’azione complessa e motivata, il genere di azioni utili in tempi di crisi. Francesca De Gottardo ha scelto questa parola come nome per la sua impresa. È fashion designer con una formazione in archeologia.

Di come il design sia a volte un’illuminazione improvvisa è l’argomento di un’altra storia. De Gottardo fonda il brand di moda etica, a cavallo fra Tanzania e Italia, nel 2018 con una collezione autoprodotta e autofinanziata. L’obiettivo è di lavorare con tessuti locali e giovani artigiani locali su una linea fashion adeguata al mercato occidentale.

L’azienda cresce rapidamente, anche grazie all’incubazione nel 2020 all’interno del programma B4i di Università Bocconi. Nel frattempo iniziano le collaborazioni con i giovani dell’Università di Dar Es Salam, dove poco più tardi viene istituito il primo corso in fashion design. E la visita all’account Instagram e al sito di Endelea diventa un appuntamento fisso per molte donne in cerca di capi originali prodotti dall’altra parte del mondo ma in modo trasparente ed equo.

Francesca De Gottardo vuole lavorare davvero in modo sostenibile, sotto ogni punto di vista.

Una decisione che significa fare le scelte giuste in ogni momento del processo aziendale, dalla scelta delle materie prime al rispetto nei confronti della cultura produttiva e identitaria dei tanzaniani. Endelea non si limita a raccontare i prodotti, spiega invece ogni passo, ogni scelta, per quanto complessa e difficile da comunicare. Sceglie per Endelea la strada B Corp, compie ricerche sui legami culturali espressi dalle stampe e dalle tinture africane.

Mette tutto in cifre e così dimostra che la trasparenza è un motore di miglioramente eccezionale: il 3% del bilancio è reinvestito in progetti locali, 116% la differenza del salario garantito da Endelea e il salario medio tanzaniano, 5 anni la durata della partnership con l’università locale, 0% la differenza salariale fra uomini e donne, 360 chili di tessuto di scarto recuperato, 45% i fornitori sostenibili certificati. Report annuali sulla sostenibilità ambientale, sociale, umana sono pubblicati sui canali del brand.

E poi arriva la decisione di chiudere. La sostenibilità imprenditiva sostenuta dalla volontà e dalla capacità progettuale di una persona e del suo team non bastano ancora per un fashion business etico.

“Il problema è stato, ovviamente, economico. Ma ha radici in molti fattori sistemici. Le richieste che permettono di accedere ai fondi governativi sono inadatte a un’impresa etica che vive di un sistema economico sostanzialmente alieno alla cultura imprenditoriale tradizionale. In più si è manifestata la crisi del mercato moda”. Infine c’è un tema di ordine culturale.

“Un capo prodotto in modo equo ha un costo e un ricavo completamente diverso da quello tradizionale basato sulla manodopera di lavoratori sottopagati e non protetti. Siamo tutti consapevoli di questo. Ma non siamo ancora pronti a pagare il giusto per un prodotto fatto rispettando la dignità di micro e macro economie locali”.

GoodWaste: recupero locale, mirato, reale

Laureata di primo livello in Design alla LABA di Brescia, consegue la laurea di secondo livello in Product Design presso il Royal College of Art, a Londra, dove risiede e da dove si dedica al perseguimento di obiettivi di economia circolare in modo pragmatico e minuzioso.

Ambra Dentella è co fondatrice di GoodWaste, studio che progetta la trasformazione di materiali di scarto in oggetti e spazi di valore.

Una cosa è progettare un processo che migliora le perfomance ambientali di un prodotto. Un’altra è lavorare caparbiamente sul recupero di quello che è unanimemente considerato materia di scarto. Ad esempio i rifiuti del megastore londinese Selfridges, recuperati utilizzando semilavorati ad uso interno e materiali in esubero per farne due modelli di lampada da tavolo, delle candele, dei vasi.

Un’azione piccola. Ma bella. Il lavoro progettuale di GoodWaste non si limita a intercettare lo scarto, ma ne fa qualcosa di bello, di commercializzabile. Anche questa è una piccola novità, ma importante. Perché spesso recupero e riuso coincidono con qualcosa che nega l’esperienza estetica.

Che per definizione deve essere sorprendente, piacevole ai sensi, stupefacente. Ci sono poi gli aspetti sociali oltre che ambientali: il valore pedagogico di queste pratiche si palesa infatti nella consuetudine di una co-progettazione con comunità locali, per costruire modelli di riduzione di impatto.

Questo articolo è stato ispirato dalla ricerca “35 Designer, Under 35” realizzata da Fondazione Symbola in collaborazione con ADI per mappare il futuro del design raccontato attraverso il lavoro e l’innovazione di 35 giovani progettisti italiani.