Il successo del duo italo-danese, GamFratesi, deve molto all’incontro tra le due culture progettuali, dice Enrico Fratesi

Si sono conosciuti in Italia, durante gli studi in architettura a Ferrara, ma hanno deciso di completare la loro formazione in Danimarca.

Se non avessero fatto questa scelta, Stine Gam ed Enrico Fratesi non sarebbero quello che sono oggi, il duo GamFratesi, una firma del design affermata a livello internazionale e sempre più richiesta dalle major dell'arredo italiane.

“A questo Paese dobbiamo molto”, spiega Enrico. È qui, infatti, che i loro interessi di giovani architetti si sono orientati verso il design. Ed è qui che hanno colto le occasioni offerte da una città in grande effervescenza, Copenhagen, che già 15 anni fa aveva deciso di sostenere la capacità visionaria dei giovani e di puntare sull'architettura e sul design quale strumento d'innovazione del territorio.

Il percorso danese dei GamFratesi inizia ad Aarhus, dove Enrico e Stine si trasferiscono ancora studenti e scoprono il mondo del furniture grazie a un dipartimento dedicato allo studio dei classici e alla progettazione dei mobili secondo un approccio più artigianale che industriale.

La scelta di rimanere in Danimarca nasce poi in modo naturale: i meriti conquistati all'università permettono loro di stabilirsi a Copenhagen, dove è nata Stine, e di godere di una serie importante di benefit.

Gli vengono infatti messi a disposizione un atelier personale e un laboratorio dotato di tutti gli strumenti per sperimentare qualsiasi tipo di materiale: legno, metallo, tessuti... “Un'esperienza”, commenta Enrico, “fondamentale per un giovane designer che agli esordi della professione deve verificare con le mani le sue idee progettuali.

In questa città abbiamo poi creato la nostra famiglia e strutturato il nostro studio. Ci piace vivere qui, anche se spesso ci manca l'Italia”.

In questi anni la capitale danese è diventata il polo dell'arredo del Nord Europa. Cosa le ha permesso di raggiungere questa leadership?

È merito di un gruppo di aziende che hanno saputo fare sistema e di 3Daysofdesign, la rassegna annuale dedicata al design contemporaneo, che negli anni è cresciuta, diventando un appuntamento importante del settore.

Anche nell'ambito dell'architettura la città ha assunto un ruolo di riferimento mondiale, grazie a una municipalità che ha offerto agli studi di progettazione locali – BIG in primis – la possibilità di esprimersi e di sperimentare sul territorio.

A questo processo di affermazione internazionale ha sicuramente contribuito anche il settore food: il Noma, capitanato da René Redzepi e giudicato per ben cinque volte il miglior ristorante del mondo, ha fatto da scuola a tantissimi chef che hanno rivoluzionato la concezione della cucina danese e dato una forte spinta innovativa alla città.

È stato bello prendere parte a questo percorso evolutivo.

Abbiamo avuto la fortuna di iniziare a lavorare con aziende di design di piccole dimensioni che negli anni si sono incredibilmente ingrandite e hanno acquisito una posizione leader.

Parlando del vostro lavoro viene spesso usata l’espressione “melting pot stilistic”. Vi riconoscete in questa definizione?

È una definizione in cui ci ritroviamo. Noi ormai lavoriamo in simbiosi, però sin dall'inizio i nostri progetti hanno rappresentato in modo molto armonico la contaminazione tra una visione tipicamente scandinava e una italiana.

Il design che ne è scaturito è qualcosa che non è ascrivibile né all'una né all'altra sfera geografica.

Oggi siete molto apprezzati dalle aziende del design italiano perché attraverso le vostre diverse origini attribuite al prodotto un carattere internazionale. Qual è il punto di forza dei vostri progetti?

Penso sia quello di relazionarsi alla Scandinavia per quanto riguarda la semplicità formale e l'uso dei materiali, sapendo al tempo stesso valorizzare la ricerca estetica e la cura dei dettagli che è tipicamente italiana.

Quali sono esattamente i vostri riferimenti progettuali?

La storia del design italiano, così come quella del design scandinavo, è sempre sui nostri tavoli. La prima ci stimola con pensieri e linguaggi molto forti.

La seconda ci insegna ad approcciare il progetto non tanto in termini di singolo prodotto quanto di processo.

Se ci fai caso, le icone del design danese non sono mai connotate da un nome preciso, quanto da numeri che progrediscono secondo un criterio lineare e un percorso evolutivo.

Quando io e Stine iniziamo un progetto lo facciamo sempre attraverso una conversazione, mai con una matita. Questo vuol dire che il nostro approccio è speculativo, quindi è più italiano.

Poi però si sviluppa secondo una visione di processo che è sicuramente più danese.

Possiamo comunque dire di essere molto fortunati, perché avere due riferimenti progettuali come l'Italia e la Danimarca costituisce già in partenza un grande vantaggio.

L'approccio più 'individualistico' del design italiano ha fatto sì che attorno ai prodotti si sia sviluppata una forte narrazione. Credi che gli scandinavi diano una minore importanza allo storytelling del progetto?

Oggi anche loro hanno capito che per rendere comprensibile un prodotto bisogna raccontare la sua storia. Un tempo questo non succedeva.

Con i suoi progetti Ettore Sottsass ha sempre espresso una visione che era prima di tutto filosofica e letteraria ed era raccontata nei suoi numerosi scritti.

Se studi figure come Finn Juhl o Poul Kjaerholm, ti accorgi che non esiste alcuna testimonianza del loro pensiero; erano progettisti 'introversi' che con i loro lavori esprimevano un'idea della natura, la bellezza del materiale, il valore dell'artigianato, ma sempre in modo molto implicito. Credo che la combinazione di queste due diverse attitudini possa dare risultati davvero interessanti.

Negli ultimi anni, le aziende nordiche dell'arredo hanno acquisito forza e visibilità perché hanno saputo creare un'idea molto precisa
e riconoscibile di total living. Cosa pensi a questo proposito?

La Scandinavia ha avuto il merito di anticipare uno stile armonico di vivere la casa, improntato alla semplicità e alla naturalità, che si è poi affermato a livello globale sia a causa della crisi ambientale che della pandemia.

Al successo di questa visione strategica ha sicuramente contribuito un nuovo modello di comunicazione, che, attraverso suggestive immagini ambientate e un linguaggio molto informale, ha saputo instaurare un rapporto diretto con l'utilizzatore finale.

Non solo per quanto riguarda i prodotti d'arredo, ma anche per tutti quegli elementi e accessori che concorrono a definire lo stile e l'atmosfera di una casa.

Cambia l'approccio al progetto nel momento in cui si passa da un committente danese a uno italiano?

Sì, cambia.

Ovviamente l'obiettivo rimane lo stesso: progettare qualcosa che risponda all'identità del marchio. Nel caso di un'azienda italiana, questa identità è legata a una storia manifatturiera molto forte che le aziende scandinave possono vantare raramente: non producono quasi mai al loro interno ma si appoggiano a una rete di bravissimi fornitori.

Quando collaboriamo con un marchio come Poltrona Frau, che ha una grandissima tradizione nella lavorazione della pelle, o come Minotti, che ha uno straordinario know-how nella realizzazione degli imbottiti, il progetto si sviluppa entro binari ben tracciati.

Basta visitare i loro reparti produttivi per capire qual è la strada che il prodotto deve percorrere: il brief è suggerito da un heritage che cogli anche solo osservando le mani degli artigiani.

La collaborazione con le aziende scandinave può invece seguire strade sperimentali più eclettiche, sia in termini di materiali che di stile. Da un certo punto di vista è più libera mentalmente.