Si chiama Controvento il creative collettive co-fondato da Gabriele Chiave, che raccoglie l’esperienza dello studio Marcel Wanders. Una nuova idea di progetto condiviso che rinnega le logiche dello star system e si propone di valorizzare il lavoro di squadra. Perché il mondo sta velocemente cambiando e così pure il ruolo del designer

Quella di Gabriele Chiave è una storia di evoluzione che esce dagli schemi consolidati del design system e indica una nuova via possibile di intendere la professione del progettista.

Tutto inizia nel 2007, quando Chiave, dopo tre anni di collaborazione con Marc Sadler e altre esperienze in Italia, approda ad Amsterdam nello studio di Marcel Wanders in qualità di senior designer.

La sfida è decisamente interessante: innestare la visione pragmatica e industriale del design italiano su quella più artistica e concettuale del design olandese.

Il match funziona e Gabriele diventa parte attiva dello sviluppo olistico dello studio, i cui progetti spaziano dall’architettura d’interni al prodotto, dalla grafica alla direzione artistica.

Il team si allarga a una cinquantina di persone e Chiave nel 2015 ne assume la guida nel ruolo di direttore creativo, diventando di fatto il referente di tutte le aziende, italiane e non, per le quali Marcel Wanders Studio disegna prodotti di grande successo.

Poi, nel 2022, la notizia che lascia tutti a bocca aperta: Wanders decide di chiudere lo studio.

Complici i suoi impegni sempre più coinvolgenti nel real estate e in molte altre attività esterne al design, la pandemia, la decisione di Gabriele di trasferirsi a New York dove gli viene offerta la carica di VP Creative Direction – Design&Innovation dei 32 marchi che compongono il gruppo Estée Lauder.

Sorge a questo punto un problema: come dare continuità ai progetti e ai rapporti avviati sino a quel momento?

La scelta di Chiave è altrettanto sorprendente: anziché creare un nuovo studio a suo nome – il ruolo di ‘primario’ gli sarebbe spettato di diritto – propone di fondare, insieme a colleghi dello studio Wanders, un creative collective dall’emblematico nome di Controvento: uno studio in partnership dislocato tra Amsterdam, Milano e New York che raccoglie le figure e le esperienze sviluppate in precedenza, ma anziché celebrare la personalità di un singolo progettista si propone di promuovere il lavoro di squadra: “Quello che di fatto attribuisce valore a ogni progetto e rende appassionante questo mestiere. Il design è un lavoro di team, ma questo aspetto non viene mai messo abbastanza in evidenza”.

Insieme a Philippe Starck, Marcel Wanders ha fatto del designer un vero e proprio brand, non solo un progettista di prodotti. Cosa ti ha lasciato la lunga esperienza fatta nel suo studio?

Starck e Wanders sono gli unici ad avere sviluppato una comprensione olistica della creatività. Nessuno come loro ha raggiunto così tante tematiche, tipologie e contesti.

Io personalmente ne ho tratto un’apertura mentale gigantesca. Mi piace l’idea di essere ‘generalista’, ovvero di avere delle basi progettuali adattabili in diversi ambiti.

Credo che oggi il progetto vada ben oltre il singolo oggetto. Riguarda la user experience, la presenza on line e off line del prodotto, la sua distribuzione e la sua presentazione negli store... Oggi mi occupo di un settore tutto diverso fatto di grandissimi numeri, che in un certo senso richiede un approccio più specialistico.

L’esperienza fatta nel ‘piccolo’ mondo del design, legato al pensiero progettuale europeo che è intriso di valori profondi, mi permette di assumere una visione comunque trasversale: il mondo della bellezza è molto ampio in termini di contenuti e significati e il nostro obiettivo non è solo quello di occuparci di packaging.

Mi interessa capire quale sarà la vera innovazione e come potrà essere attuata a 360 gradi, soprattutto in termini di sostenibilità.

E sono sicuro che l’esperienza per un gruppo globale come Estée Lauder Companies, che ha molte risorse e mi ha coinvolto per progetti a lungo termine, mi permetta di sperimentare fattivamente un’idea di innovazione che inizia a monte dell’intero processo, ben prima dell’atto progettuale.

Pensi sia difficile fare innovazione nel mondo dell’arredo?

Oggi questo settore si è trasformato in un fast food del design: ogni anno ai designer viene chiesto di presentare prodotti nuovi che spesso rendono obsoleti quelli realizzati solo due anni prima.

I progettisti non riescono ad avere la testa, il tempo e lo spazio per essere veramente innovativi.

Il mio desiderio è che Controvento diventi espressione di una mentalità crossover capace di innestare elementi di innovazione nel design per la casa e, nello stesso tempo, di portare i valori della bellezza e dell’heritage europei in settori industriali diversi da quello dell’arredo.

Dunque sostieni che oggi non ci siano più le condizioni per fare ricerca...

A livello generale è così, fatta eccezione per alcuni progetti e alcune aziende che ancora credono nella ricerca. La lampada Skynest, per esempio, progettata dallo studio Marcel Wanders per Flos, è a mio parere un prodotto di grandissima poesia e innovazione a livello di tecnologia e sostenibilità.

Però è costata più di due anni di studio realizzato a quattro mani con il team di Flos. La ricerca è possibile, ma solo dove ci sono imprenditori e manager visionari che ti concedono il tempo e le risorse per farla.

Tante volte mi è stato chiesto di ripensare un divano oppure un altro arredo in una versione più sostenibile, utilizzando magari materiali a minore impatto ambientale.

Ma non è così che si approccia e si progetta la sostenibilità: bisogna ripensare tutta la filiera, non il singolo prodotto. Significa ragionare secondo i principi del Life Cycle Assessment. Ma questo è un obiettivo che non può essere perseguito in sei mesi, occorrono almeno due anni.

Credi che il ruolo, le competenze e le responsabilità del designer siano cambiate nel corso degli anni?

Sicuramente. E questa evoluzione diventerà ancora più veloce ed evidente nel prossimo futuro.

Negli ultimi anni l’intervento del designer è arrivato a coinvolgere sempre più aspetti del prodotto: comunicazione, immagine, fotografia, testo, story telling.

Il prodotto rappresenta solo il 50 per cento del lavoro del progettista, l’altro 50 riguarda tutto quanto gli ruota intorno.

Il design oggi è una disciplina alquanto poliedrica e la figura del designer coincide sempre più con quella del direttore creativo, la cui visione estetica e tecnologica si esprime in diversi contesti e a diverse scale di complessità.

Rimpiangi qualcosa del design del passato?

Mi mancano i pensieri radicali rappresentati da gruppi come Memphis o Droog Design. Quei progetti manifesto nati per iniziativa di gruppi di designer che hanno deciso di condividere i loro ideali e hanno avuto il coraggio di portarli avanti per anni con azioni dirompenti, facendo la storia del design.

Quali sono invece gli argomenti del presente e del futuro che ti appassionano in modo particolare?

Sicuramente l’intelligenza artificiale, una realtà molto stimolante sia a livello progettuale che di pensiero. Sono sicuro che cambierà completamente la natura del nostro lavoro se utilizzata in maniera etica e intelligente.

Siamo solo nella fase iniziale e destabilizzante di un’innovazione che non possiamo fermare. Si tratta di capire come utilizzarla per arricchire, anziché impoverire, il progetto.

Dobbiamo educarla e farle apprendere – adesso che è paragonabile a un bambino che assorbe le nozioni dal mondo circostante – la bellezza dell’essere umano, così che quando le sue capacità intellettive supereranno le nostre – si dice nel 2030 – le sue decisioni possano essere migliori delle nostre.