Big data, AI e app aiutano a capire quali cibi ci fanno male: ecco due progetti (uno sperimentale l’altro già disponibile) che aiutano a mangiare sano

Non parliamo di diete dimagranti, qui. Ma di obesità dilagante sì: gli italiani diventano sempre più grassi, in particolare i bambini e i ragazzi. Lo dimostrano i numeri.

La quota obesità nei giovanissimi italiani sta raggiungendo quella statunitense: un dato impensabile fino a pochi anni fa. E mentre ovunque si celebra la bontà e la salubrità della dieta mediterranea, proprio noi amanti della buona cucina la stiamo abbandonando, soprattutto quando (non) cuciniamo per i piccoli. Come mai?

Il futuro parla di cibo e dna: Foodome

Lo spiega Giulia Menichetti, fisica trentasettenne impegnata da tempo in una ricerca battezzata Foodome. Insieme a Albert-László Barabási, guru della network science, sta sviluppando una serie di algoritmi in grado di verificare l’effetto di oltre 26.000 sostanze presenti nei cibi sul dna individuale e collettivo.

Ogni corpo ha una risposta individuale alle numerose molecole che compongono gli alimenti, soprattutto se processati.

E anche quando si parla di sostanze naturali, è impossibile stilare liste di cibi funzionali, ovvero curativi, su una base individuale. C’è chi usa meglio le proteine di altri, chi invece metabolizza i grassi animali in modo ottimale.

Dal punto di vista medico quindi il cibo è affrontato con consigli validi e sensati, ma non personalizzati né scientificamente inattaccabili.

L’AI potrà dare delle risposte certe

Un algoritmo applicato a un modello di machine learning capace di analizzare big data ci salverà dall’80% delle malattie causate da agenti esterni, cibo in primis, usando dati epidemiologici e ampi studi biochimici su come il corpo umano reagisce alle numerosissime sostanze artificiali, e non, presenti in quello che ingeriamo.

Il lavoro è terribilmente lungo, ne sono ben consapevoli alla Harvard Medical School, che sostiene e ospita i laboratori Foodome insieme alla Northeastern University di Boston.

Ma ne vale la pena, perché Foodome ci dirà quali cibi preferire per avere effetti positivi sulla salute. O quali sicuramente sono tossici su ampia scala, a lungo termine in caso di uso continuativo.

Il 'caso' aspartame

Allo stato attuale infatti gli aggettivi più comunemente usati nei papers scientifici che sintetizzano le ricerche su gruppi umani sono: probabile, sospetto, ipotetico. Perché valutare l’esattezza di un’ipotesi epidemiologica è un lavoro enorme, pressoché impossibile da attuare senza AI e progetti come Foodome.

Un esempio pratico: l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha inserito l’aspartame (il dolcificante dietetico più comune) nella categoria C2: sostanze potenzialmente cancerogene. Una decisione motivata da alcuni studi su larga scala.

L’OMS però ha reagito senza in effetti portare alcuna modifica sull’utilizzo del dolcificante: ha preso atto della posizione dell’Airc ma non ha né proibito né regolamentato l’uso di aspartame. Perché non esistono studi sufficientemente estesi per avallare una scelta radicale.

Primo indagato: il cibo industriale

I risultati parziali della ricerca Foodome però danno risposte certe almeno su una cosa: il cibo processato fa male.

Non solo è responsabile dell’epidemia di obesità italiana, ma è il principale veicolo della presenza nel nostro corpo di sostanze pericolose. Additivi, conservanti, coloranti, grassi industriali e zuccheri: Giulia Menichetti li definisce la 'materia oscura', perché non esistono studi significativi su moltissime sostanze comunemente usate.

Molecole che non dovrebbero far parte della nostra dieta e che invece, soprattutto per ragioni economiche, gli italiani si sono abituati a consumare e a offrire ai bambini.

Yuka, un’app per una spesa senza sostanze tossiche

Soluzioni pratiche? Cucinare cibi freschi, evitare i prodotti industriali e imparare a leggere le etichette. Compito improbo? Ancora una volta la tecnologia risolve, anche se in modo meno personalizzato rispetto a quello che potrà fare Foodome una volta applicato su larga scala.

Yuka è l’app più scaricata della categoria Benessere e Salute sulle principali piattaforme digitali. Si tratta di uno strumento semplice e intuitivo, progettato da Julie Chapon, François Martin e Benoit Martin nel 2017. Attualmente è utilizzata da 40 milioni di persone, parla dodici lingue e valuta 45 prodotti al secondo.

Leggere le etichette senza una laurea in chimica

Yuka scansiona il codice a barre di prodotti alimentari e cosmetici e ne dà una valutazione sul possibile impatto sulla salute e sull’ambiente. E ovviamente consente di fare una scelta informata su quelli giudicati come 'mediocri' o 'scarsi'. La valutazione si appoggia a database scientifici e ricerche già pubblicati e tracciabili.

I parametri descritti riguardano i possibili effetti sul sistema endocrino umano, sul rischio cancerogeno, allergico, irritante.

Segnalano la presenza di microplastiche o altre sostanze intrinsecamente inquinanti. E avvisa quando una sostanza presente sull’etichetta del prodotto coinvolge cicli produttivi non sostenibili in modo comprovato, come la produzione della maggior parte dei derivati del petrolio. Un dettaglio interessante: spesso sono valutati negativamente anche ingredienti naturali, come alcuni oli essenziali o fitoestratti.

Uno strumento per chiedere più qualità alle multinazionali del cibo

Ultimamente le valutazioni di Yuka su cibo e prodotti cosmetici, da scarso a eccellente, compaiono anche sulle piattaforme di ecommerce dei brand.

E, soprattutto, Yuka sta acquisendo sempre più influenza e autorevolezza, tanto da convincere il 92% degli utenti a riporre un prodotto sullo scaffale se la valutazione non è sufficiente.

Il modello di business è interessante e onesto: è possibile pagare un abbonamento scegliendo fra diverse cifre, a seconda di quanto si valuta l’app. E questo consente a Yuka di essere economicamente sostenibile e, soprattutto, indipendente.