Per rendere naturale la tecnologia, va agganciata a qualcosa di familiare: lo studio Dotdotdot racconta cosa fa la qualità di una user experience

Come si progetta una user experience? E, soprattutto, come si integra l’esperienza digitale di un visitatore all’interno di uno spazio pubblico, fruibile da pubblici diversi?

Rispondere a queste domande è il punto di forza di Dotdotdot, lo studio nato a Milano nel 2004 a seguito dell’esperienza ('meravigliosa', dicono) dell’Interaction Design Institute di Ivrea nei laboratori Olivetti.

È a Ivrea che i quattro futuri fondatori mettono a punto una filosofia comune, che li farà lavorare insieme fino a oggi, per posizionarsi ai primi posti di concorsi internazionali: ragionare sull’esperienza.

Ma sono anche coinvolti nella BEIC - Biblioteca Europea a Milano, progetto architettonico di Onsitestudio e Baukuh, per troppi anni lasciata in sospeso in un quartiere che prometteva una rinascita e invece è rimasto abbandonato nel non finito.

Il digitale per informare e creare ingaggio emotivo

Dotdotdot ha appena vinto il concorso per la rifunzionalizzazione della Cavallerizza a Torino, il gruppo guidato dagli architetti dello studio Cino Zucchi Architetti e Politecnica. Ma sono anche coinvolti nella BEIC - Biblioteca Europea a Milano, per troppi anni lasciata in sospeso in un quartiere che prometteva una rinascita e invece è rimasto abbandonato nel non finito.

Tra i lavori ultimati, recentissimo è quello per la Fondazione Luigi Rovati: un viaggio guidato negli spazi museali, grazie ad un’app basata su un sistema innovativo location-based. Il sistema permette approfondimenti live grazie alle funzioni base del proprio telefono senza digitare codici numerici.

Wow! Sì certo, l’effetto che fa è quello, anche se i Dotdotdot tengono a precisare che per loro, sin dall’inizio, quando ancora la tecnologia rappresentava per il grande pubblico l’inaspettato (quasi magico), il digitale andava (e va anche ora) considerato un veicolo di informazioni e un mezzo per creare un ingaggio emotivo. Niente effetto wow…

Agganciare il tech a qualcosa di famigliare

«Oggi la tecnologia è una presenza data per scontata, se non c’è ci resti male», mi spiegano Laura Dellamotta e Alessandro Masserdotti, architetta lei e filosofo lui, rappresentanti del gruppo in questa intervista.

«Ma quello che abbiamo imparato in questi anni è tantissimo su come gli umani interagiscono con la tecnologia». Ovvero? «Se la tecnologia è agganciata a qualcosa di famigliare, diventa facile per l’utilizzatore». È questo che indicate come esperienza?

Effetto wow: sì ma come risultato della comprensione

«Un esempio molto concreto è quanto abbiamo fatto per il MAAT – Museum of Art, Architecture and Technology di Lisbona. Un lavoro sulla crisi climatica in cui la tecnologia mette a disposizione le informazioni scientifiche in maniera semplificata ma molto profonda.

L’effetto wow qui è sì emozionale, ma come risultato della comprensione del problema. Dietro alla tecnologia c’è un lavoro enorme sulla gestione dei dati e sulla loro interazione, a loro volta risultato di un lavoro eccezionale di ricerca».

Il visitatore di questo museo ha un’opportunità fantastica: giocare con i dati della crisi climatica attraverso un mixer e informazioni provenienti dal satellite ESA, finché i fatti prendono forma davanti ai suoi occhi.

«Il pubblico vive un’esperienza scientifica in modo emozionale. Perché quello che abbiamo fatto è stato rendere comprensibili informazioni complesse».

Gestire la complessità e ragionare sulle motivazioni delle persone

La complessità è un altro cavallo di battaglia di Dotdotdot. «Più un sistema è complesso e migliore è il nostro risultato. Perché la complessità rende insufficiente l’approccio funzionale».

In altre parole: «Una user experience comincia dal vissuto del visitatore. Parlando della Cavallerizza, lavoriamo insieme agli architetti e agli strutturisti per trasformare questo luogo in un polo culturale fruito da persone con obiettivi diversi: ci saranno un teatro, una sede universitaria, uno spazio pubblico.

Per disegnare le nostre architetture digitali abbiamo ragionato sulle motivazioni che porteranno la gente in quel luogo, non sul target.

Per la serie: cosa vieni qui a fare? Per studiare, per passeggiare, per andare a teatro…. Il digitale è un supporto completo, che fa trasparire tutto quello che accade nello spazio: avverte il visitatore dello spettacolo che ci sarà, propone offerte o attività culturali per esempio.

Apre finestre, in altre parole, e connessioni con le architetture del posto».

Lavorare a stretto contatto con gli stakeholders

Per arrivare a questo, i Dotdotdot partono dallo studio del progetto per poi analizzare practices nel mondo e infine lavorare con gli stakeholders. Cioè le persone attive sul territorio, gli abitanti, le associazioni, il parroco, alcuni negozianti.

“Per esempio per BEIC abbiamo lavorato con il sistema delle biblioteche milanesi che vanta esperti eccezionali super appassionati, ma anche con accademici e librai di zona, per allargare lo sguardo sul quartiere con un’analisi socio urbanistica. Facciamo interviste per acquisire quanti più insight possibili”.

L’essenza dell’esperienza, progettata con gli strumenti del Service Design

Lo step successivo è usare lo User Journey, uno strumento tipico del Service Design che prevede la creazione di una persona-tipo guidata da una motivazione specifica alla visita che permette ai designer di identificare tutti i migliori touch point del percorso, dal ticketing ai percorsi, fino alla prenotazione di una cena (solo per citarne alcuni).

“Ci interroghiamo sul perché i touch point – cioè i punti di contatto tra visitatori e servizi - sono lì e con quali funzioni. Poi procediamo alla progettazione, che è molto concreta: bisogna pensare anche a dove far passare i cavi, banalmente”, spiegano i Dotdotdot.

In questo tipo di lavoro, gli attori coinvolti sono moltissimi.

«Siamo designer, architetti, sviluppatori, ingegneri. Quello che facciamo è un lavoro multidisciplinare per cui impariamo la lingua degli altri. Il che ci permette di fare i traduttori». I traduttori? «È forse uno degli aspetti salienti del nostro lavoro, avere le competenze per interpretare e tradurre i diversi linguaggi che compongono il progetto».

Per lavorare in questo campo, spiegano i Dotdotdot, “ci vogliono esperienza, curiosità, voglia di imparare, sapersi fare interpreti e traduttori ovvero, filosoficamente, saper ascoltare bisogni e esigenze di contesti complessi e di un team multidisciplinare.

E ancora, saper fare ricerca, studiare, gestire un progetto e inventarsi una metodologia…».

Non è il digitale ma il contenuto che invecchia

«I nostri progetti continuano ad evolvere perché non smettiamo di seguirli”, spiegano. “E sa una cosa? Abbiamo fatto anche noi una scoperta che ci ha dimostrato che l’idea di obsolescenza fa parte di un pregiudizio. La nostra installazione per il Piccolo Museo del Diario è del 2010 ed è in perfetta salute. Dunque non è il digitale in sé, ma è il contenuto che invecchia se non è fortemente sbilanciato sull’esperienza».

Anche l’esperienza, almeno secondo le intenzioni di Dotdotdot, non finisce entro le mura del museo.

«Infatti. La tecnologia consente al visitatore di portarsi dietro qualcosa. E pensiamo anche che il progetto non finisca. Ci chiamiamo dotdotdot, come i puntini di sospensione, che rendono il progetto qualcosa di non finito se non grazie all’esperienza del visitatore».