È diventata la parola chiave per capire come sta cambiando un mestiere. E non è soltanto una moda

Se potessimo trasformare in un word cloud tutte le interviste ai designer del mondo negli ultimi due anni, molto probabilmente la parola più grande risulterebbe responsabilità. Sentono tutti una enorme responsabilità, i designer, di questi tempi: verso il pubblico, verso le aziende che li hanno scelti, verso l’ambiente. “Designer che vuole salvare il mondo/ si fa nemica subito l’industria / E, con più calma, anche il mondo”, recita l’Assioma della Crocerossina, uno dei design haiku più caustici della fortunata serie di Odo Fioravanti. Ma dietro a quello che può sembrare un modo di darsi un tono, c’è forse la volontà, più o meno esplicita, di trasmettere il senso nuovo di un mestiere che ha finito, in effetti, per rendere il designer molto più di chi candida un’idea a un’azienda, la sviluppa e la accompagna sul mercato con il suo nome accanto (o sotto) a quello di un marchio.

Anni fa abbiamo visto il designer diventare la figura che ingloba le competenze degli uffici tecnici aziendali sempre più svuotati. Poi, trasformarsi in storyteller, più o meno convinto o riluttante. Oggi, in qualche caso, in storymaker. “Fare storie” è diventato sempre più svolgere un filo di coerenza e di identità, non soltanto di qualità. È in questo senso che la responsabilità incontra la curation, altra parola ricorrente, scelta due anni fa da Fabio Calvi e Paolo Brambilla per il loro ruolo in Flos, dove hanno preferito la dicitura design curator ad art director, scelta poi fatta anche da Giulio Iacchetti e Matteo Ragni in Abet Laminati: “I nostri partner devono essere sempre attenti all’evoluzione del mondo attorno a noi e in continuo aggiornamento sia su tematiche tecniche che su quelle etiche. Sono realtà dove l’attitudine al ‘lavorare bene’ a 360° è data per scontata e quindi non necessariamente comunicata, come avviene troppo spesso negli ultimi tempi per esempio parlando di sostenibilità, un tema molto complesso e abusato senza una vera ragione. A questo proposito invece, nel nostro ruolo di design curator per Flos, abbiamo rinunciato a progetti molto interessanti e innovativi che però non erano ‘sostenibili’ nella loro essenza. Non è più pensabile oggi produrre un oggetto che non sia completamente smontabile nei suoi singoli componenti, diventando così completamente riciclabile. È una sfida entusiasmante che affrontiamo volentieri, ben sapendo come spesso i progetti migliori crescano tra regole molto difficili”.

Per Alessandro Stabile e Martinelli Venezia, responsabilità è significato ribaltare il copione dei rapporti con le aziende: non essendo riusciti a trovare quella con cui realizzare il sogno di una sedia in plastica “buona”, durevole, esteticamente apprezzabile e destinata alla grande distribuzione, hanno deciso di procedere da soli, scegliendo la fabbrica di terzisti con cui sviluppare il brief. Un progetto che, trovati gli autori, è ora in cerca di un editore.

Produrre significato è un altro modo di affermare che il designer è un professionista etico? Sì, secondo Fernando Laposse, che a 33 anni è pubblicato sulle riviste più glamour con le sue collezioni di oggetti, parati e rivestimenti nati lavorando artigianalmente le foglie di mais. Un approccio che ridà speranza alle comunità di campesinhos messe in ginocchio dagli accordi commerciali internazionali che hanno svuotato di valore le coltivazioni locali, le stesse che Laposse prova a rimettere in circolo con il suo design raffinatissimo: “Vivo la responsabilità di essere un designer puntando al miglioramento dell'ambiente e della vita delle persone con cui lavoro. Mi piace affrontare e ideare soluzioni sistemiche che responsabilizzino le persone in situazioni sfavorevoli. Uno dei punti chiave dei miei progetti è avere la massima trasparenza e raccontare storie complesse in modo accessibile al grande pubblico. Lavoro mano nella mano con comunità indigene che sarebbero altrimenti escluse dal nostro mondo globalizzato, lo stesso che le ha colpite duramente.

Qui da noi, la principale minaccia per l'ambiente non sono i rifiuti di plastica, i combustibili fossili o il consumo eccessivo, ma la disuguaglianza sociale. Per risolvere questo problema, abbiamo bisogno di soluzioni creative radicalmente diverse che generino responsabilmente fonti di reddito alternative. In realtà il problema è semplice: se stai morendo di fame e l'unico modo per ottenere soldi per accedere ai diritti umani fondamentali è abbattere gli alberi nella tua terra, lo farai: lo farebbe chiunque. Credo che parte della soluzione risieda nei giovani responsabili che pensano a livello globale, agendo localmente in modo dirompente dal basso. Il cambiamento radicale non arriverà dalle grandi compagnie, dicono che le grandi navi sono difficili da invertire”.