Diego Grandi, Ferruccio Laviani e Vincent Van Duysen ci hanno raccontato come si progetta la ceramica

Il 26 settembre inizia il Cersaie 2022 (fino al 30 settembre). Inevitabile quindi parlare di ceramica, in questi giorni.

Abbiamo deciso di farlo  con Diego Grandi, Vincent Van Duysen e Ferruccio Laviani. tre designer molto diversi, ognuno con la propria attitudine progettuale e il proprio sguardo sul tema delle superfici.

Insieme a loro abbiamo cercato di ricostruire un vademecum sul tema.

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Primo punto: quando il design ha cominciato a occuparsi di superfici e di ceramica?

Domanda facile: praticamente da subito. Fra i 'maestri' citati da Ferruccio Laviani, parte del suo background culturale e delle sue ispirazioni, c’è Gio Ponti che nel 1962 firma il total look dell’Hotel Parco dei Principi a Sorrento e ne disegna anche le superfici.

Ponti non era nuovo né al materiale - uno dei suoi primi incarichi è la direzione artistica della Richard Ginori - né a un design degli interni che dialoga con l'architettura. "Gio Ponti ha fatto anche un bellissimo lavoro con Marazzi, ma non si discosta da un’interpretazione tradizionale: decorativa, ornamentale".

Ponti ha tentato di uscire dalla forma quadrata, di usare le tessere curvilinee come parte di un mosaico decorativo astratto.

Era il 1960 quando progetta la piastrella Triennale, il primo tentativo di costruzione di un vocabolario nuovo: interpretabile, non per forza ripetitivo. In seguito sono davvero pochi i designer che non si occupano di superficie, ma è la tecnologia che fa fare il grande salto tipologico al settore.

"Mi ricordo un lavoro di Droog Design in cui per la prima volta si vedeva la ceramica diventare una pelle che copriva tutto: pavimenti e pareti, ma anche mobili e oggetti", spiega Diego Grandi. Ma è l’avvento dello spessore minimo che permette di trasformare la piastrella in una seconda pelle.

Secondo punto: come si disegna un prodotto nuovo quando si parla di ceramica?

Linee produttive automatizzate, ricerca chimica e fisica sulle formule del materiale, spessori sempre più sottili. "La ceramica dall’inizio del 2000 è diventata una superficie da progettare, non da decorare.

È stato un passaggio fondamentale legato alla tecnologia produttiva, che nel mio lavoro coincide con la collezione Mauk per Lea nel 2003", racconta Diego Grandi.

"Lo scatto evolutivo è possibile quando la volontà di un brand collima con le passioni e i riferimenti culturali del designer. Da una parte la tecnologia, dall’altra il progetto: si accende una scintilla che stravolge lo scenario produttivo".

È d’accordo Vincent Van Duysen, che sta collaborando con Mutina: "Io e Massimo Orsini (ceo Mutina) condividiamo la stessa passione per l'arte in generale. È  questo che ci unisce e finalmente abbiamo trovato il momento giusto per iniziare a lavorare insieme. Ne è uscita una collezione che rappresenta entrambi i nostri mondi in modo equilibrato".

Terzo punto: quali sono le tendenze per le superfici ceramiche?

Spiega Ferruccio Laviani: "Con la ceramica si può fare praticamente qualsiasi cosa. È per questo che si è cercato negli ultimi decenni di nobilitarla, di farla sembrare qualcosa che non è".

Il finto cotto, il finto legno, il finto marmo popolano i cataloghi delle aziende.

Niente di male, soprattutto perché la ceramica è un prodotto resistente, economico e di facile manutenzione. Del resto esistono esempi storici di imitazioni e di nobilitazioni, ma: "c’era dell’ironia nel faux bois francese dello scorso secolo", sottolinea Laviani.

"In questo momento è più interessante cercare in modo radicale l’aspetto più naturale della materia, per trovare applicazioni diverse, ad esempio in architettura".

Vincent Van Duysen ha lavorato proprio su una superficie architettonica e tattile con Mutina. "La cosa più importante per noi era integrare anche questa dimensione. Creare diverse varianti che danno un’interpretazione cromatica ogni volta completamente nuova dello stesso pattern. È un modo per dare flessibilità e visione al mondo dell’architettura".

Quarto punto: la superficie come ornamento

"È chiaro che restituire il materiale senza operazioni di mimesi è interessante. Allo stesso tempo però si può lavorare in modo sofisticato, partendo da ricerche personali e mantenendo un’attitudine progettuale, non decorativa", sostiene Diego Grandi. Lui l’ha dimostrato con Typo 32, un progetto del 2014 per Lea Ceramiche: un intero alfabeto visivo costruito sulla modularità e la palette.

Ferruccio Laviani insegue un’idea simile: "Gli spessori minimi danno una grande libertà interpretativa: sono facili da lavorare anche in posa e le grandi dimensioni delle lastre non sembrano non avere limiti di forma e di taglio".

"Non bisogna limitarsi alla visione in due dimensioni: si può lavorare sui volumi, diversificandoli e trasformandoli in microarchitetture", conclude Van Duysen. "Il modulo può essere moltiplicato come un mattoncino da costruzioni per avere una grande varietà di forme e di densità sulla superficie".

Cover photo: Work in progress, Officine Saffi Lab. Ph. Mattia Parodi