Due approcci per imparare Il design iniziando dalla conoscenza del proprio talento creativo: perché il progetto è una disciplina accademica ma senza competenze umane non va da nessuna parte

Il design non è fatto solo di competenze disciplinari e tecniche, ma anche di talento, curiosità e competenze umane. Qualità elusive, delicate, che vanno trattate con cura.

Ne abbiamo parlato con Francesco Pace, aka Tellurico, che per la prima volta è stato docente di progetto alla Naba. E con il designer Lorenzo Palmeri e il giornalista Paolo Casicci, che quest’estate hanno tenuto la prima edizione di DesignMind, una summer school immersiva per studenti di design.

Tutti e tre hanno avuto la tentazione di progettare un corso fuori dagli schemi e ampio nella visione. Lo hanno fatto partendo dall’idea che design oggi si occupa di mettere insieme tante competenze, partendo da un fattore molto umano: il talento creativo.

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DesignMind: la scuola ateniese sulle colline tortonesi

Spiega Lorenzo Palmeri: “Il modello da cui siamo partiti io e Paolo Casicci è la scuola ateniese, per portare agli studenti i dati e le esperienze che non fanno parte della didattica tradizionale ma che, appena terminati gli studi, diventano il pane quotidiano dei progettisti: la relazione con la committenza, i soldi, i fallimenti e gli errori, la fiducia in se stessi e le crisi creative”.

DesignMind nasce dalla certezza che i tabù culturali e professionali vanno affrontati e che i progetti procedono per gadi successivi di conoscenze eclettiche eppure molto focalizzato ad aderire con sempre più precisione alla realtà.

Così inseguendo un’idea che aleggiava nelle pratiche progettuali di Palmeri già da qualche anno, si costruisce un progetto didattico complesso e pieno di variabili imprevedibili, si convincono delle aziende selezionate per coerenza e impegno sociale a diventare partner, si selezionano undici studenti da tutta Italia. E a luglio 2023 DesignMind parte.

Il luogo è Castellania Coppi, sulle colline tortonesi. Il tema è portare un segno progettuale, sostenibile e socialmente significativo, nel territorio.

“L’aggettivo più ricorrente per definire la prima esperienza di DesignMind è: “trasformativo”. Accanto ai colleghi Lorenzo Palmeri e Paolo Casicci chiamano a “fare lezione” anche counselor, imprenditori, professionisti selezionati per la qualità umana e per la capacità progettuale.

“Affrontare apertamente i temi più umani mi sembrava fondamentale. Alice Chirico, ad esempio, che si occupa del tema profonda meraviglia da anni. Non è scuola, è esperienza umana”.

Imparare a essere oltre che a fare

Conoscenze trasversali che si prendono in carico anche i dubbi, le inquietudini creative, l’autostima e la resilienza. “Non c’è mai stato un momento di insegnamento formale, ma una serie di situazioni reali in cui impari dagli altri, condividi e costruisci con gli altri”. Aggiunge Paolo Casicci: “I momenti dedicati al lavoro ideativo erano brevi e intensi, cadenzati da due incontri al giorno che sistematicamente rimettevano in discussione quanto fatto per l’intersecarsi di nuove conoscenze e di visioni narrative sempre più ampie”.

Francesco Pace: “Non critico, non impongo, invito a ragionare su di sé”

L’elemento umano, quella parte misteriosa e imprevedibile che le neuroscienze tentano di spiegare per dare una forma al processo creativo, senza d’altra parte incuriosire troppo gli insegnanti. Il lavoro di Francesco Pace parte da qui.

Durante il suo primo corso come docente di progetto alla Naba ha proposto agli studenti di lavorare senza un brief per indagare invece se stessi. “Credo che sia importante cominciare dagli strumenti di base, dalla costruzione di un’identità progettuale che parte dalla propria cultura e dalle proprie esperienze, per poi allargarsi con curiosità alla definizione di una ricerca personale”, spiega.

“Chi sei?” è la domanda da cui partire

“Li ho invitati a riflettere e discutere di ciò che conoscono meglio: se stessi. Definirsi con un nome, un cognome, un paese di provenienza, un genere. Su questa base si può iniziare a indagare gli elementi storici, folcloristici, le risorse materiali, i processi di produzione.

Così come le condizioni geografiche e la loro specificità nell’ambiente naturale: botanica, geologia, movimenti tellurici. Qualsiasi cosa possa essere interessante a partire dalla loro esperienza quotidiana, su cui possono lavorare autonomamente portando contenuti che conoscono bene e, quindi, interessanti”.

Il docente ha un ruolo di sintesi, di abilitatore della conversazione fra pari, secondo Francesco Pace. Tutti in un clima di ricerca e curiosità hanno l’opportunità di scambiare conoscenze, di commentare e confrontarsi.

“La prima parte del corso è focalizzata alla definizione di un topic, un tema valido e concreto intorno al quale costruire un alfabeto di segni e elementi ricorrenti. Il mio lavoro è stato soprattutto quello di aiutare a individuare le parti che possono funzionare. Materiali, oggetti, tipologie, processi, assenze che possono sfociare in prodotto”.

Abilitare il talento

Il consiglio generico per un professore alle prime armi è di tener conto della giovane età e dell’inesperienza degli studenti. Un punto di partenza non condiviso da Pace: “È vero il contrario: se ne hanno l’occasione rispondono con forza e intelligenza all’incertezza presente nella vita di tutti i designer”. Che non sempre ha un brief e un committente, ma deve avere l’energia per credere nella propria ricerca e, magari, arrivare all’autoproduzione per esordire in un primo confronto pubblico.

Francesco Pace: “I risultati del corso mi hanno stupito. C’è chi è partito dall’architettura della propria città per estrapolare un codice visivo partendo dai dettagli costruttivi, per poi utilizzarli nel progetto di una collezione di complementi. Oppure chi è partito da una condizione fisica (un intestino irritabile) per approfondire le cause e progettare poi degli oggetti per alleviare la tensione, bere molto e mangiare lentamente”.

Il punto è che, benché il design sia un mestiere che ha come contenitore finale la collettività, parte da un processo introspettivo, da una domanda personale che si allarga sempre più all’universale. E la domanda di partenza è difficile, ambigua, evasiva.

Occorre un lavoro onesto e appassionato per porsela e per rispondere in modo efficace: di cosa ho bisogno?