I designer sono grandi viaggiatori. E le tracce del loro peregrinare diventano il segno di un certo modo di progettare

Non si capisce come, ma Ettore Sottsass si spostava in una dimensione epica quando decideva di partire. I racconti dei suoi viaggi, numerosissimi e dettagliati, appaiono lungo tutta la sua vita. Su Domus, su riviste ormai scomparse. In libri bellissimi, in cui Sottsass trasforma ogni passo, ogni disegno, ogni parola o amore, in un monumento granitico al libero arbitrio e al libero filosofeggiare.

“Ho visto i dolmen e poi le antiche stupa buddiste – una mezza sfera perfetta di terra sul cadavere dell’uomo che aveva detto cose consolanti e si era comportato bene – e ho visto tra gli ulivi le pietre cadute dei templi della Grecia e anche le pietre di Corinto, città di etere, e anche ho visto le chiese bizantine piccole come giocattoli...scrive in Esercizi di viaggio.  

Come se essere architetti, designer, artisti, fosse un principio vitale, non qualcosa che si fa ma qualcosa che si immagina, si pensa, si dice mentre si cammina. Se non siete mai stati in India, leggete le sue memorie. Sarà come esserci stati, muniti però di occhi intelligenti e vivissimi. Il suo lavoro è impregnato di citazioni, di memorie nomadiche, di tentativi di riportare qui le parti più radicali e più umane di un luogo lontano. Sia che si parli di un laminato, sia che si parli di una lampada.

Forse perchè il viaggio degli anni Sessanta non sa di tratte low cost, di divertimento, di facilità e facilities. Forse perché ci voleva proprio il desiderio di camminare a lungo, di andare lontano, dimenticando pezzi di identità rassicuranti. È un sentimento di urgenza e di precarietà anche quello delle sculture da viaggio di Bruno Munari, fatte di carta, dita che piegano e forbici che tagliano.

Sculture da tenere in un libro, a cui ridare forma sul comodino di una stanza in un luogo remoto. Sta di fatto che questi designer quando viaggiano non rimangono gli stessi, si lasciano trasformare, impregnare daccapo, si lasciano ricominciare per poi raccontare il viaggio nel loro lavoro, disseminandolo di segni e codici di un altrove spaziale, certo, ma anche culturale e umano.

“Per me il viaggio è una forma di lavoro: come andassi a scuola, in una scuola strana dove qualche cosa vedo, qualche cosa mi dicono, qualche cosa mi raccontano” dice Ettore Sottsass in un intervista a Hans Ulrich Obrist del 2004, sempre per Domus. E poi, quando termina il lavoro per l’aeroporto di Malpensa si accorge di aver sbagliato, di aver confuso il non luogo con un luogo simbolico, da cui si parte e in cui si arriva. Mentre invece l’aeroporto contemporaneo è uno shopping centre, e il passeggero è la cosa meno importante. Rimane però la nostalgia per un progetto che contiene le tracce dell’archetipo, per la forza di un segno umano come quello visto nelle pietre dei templi indiani. 

 

La leggerezza del bagaglio è sempre il segno del nomade, dell’inquieto spostarsi di chi pensa che poco più in là lo sguardo si poserà su cose diverse. Lo insegna Bruce Chatwin, che però nella leggerezza rintraccia un pretesto per viaggiare solo con oggetti pensati bene e fatti meglio. Un’inquietudine dandy? “Il primo progetto che ho firmato era una serie di bauli/contenitori in legno e Corian per Ivory” racconta Gian Paolo Venier. “Il viaggio è una costante del mio lavoro: ispira le scelte, la ricerca e il tentativo di assorbire e trasformare i pattern visivi di territori diversi, di geografie lontane”.

Ed è durante un viaggio che conosce Paola Navone, altra viaggiatrice di professione, con la quale condivida un codice esotico e cosmopolita. Un segno ideale per i luoghi destinati all’accoglienza, alle vacanze: “Sto lavorando al progetto di un resort glamping in Grecia. Mi interessa l’idea di un’architettura effimera, che non lascia segni indelebili sul territorio e si concentra invece nella rielaborazione della tipicità, del décor locale. L’unico edificio è preesistente risale all’epoca della grecia socialista. Mi piace l’idea di un intervento stridente, non allineato alla sobrietà del posto, ma in grado di scomparire senza lasciare segni”. 

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Un altro progettista interessante per il suo modo di trattare la distanza e l’alterità geografica è Antonio Aricò. In un solco hi end di pezzi unici o comunque apparentemente non seriali, Aricò lavora sulle radici della sua tipicità, quella calabrese. Non rinuncia mai alla citazione, tentando sempre e comunque di portare “qui” quello che invece normalmente è relegato “lì”, in un sud lontano e ignorato. Un’attitudine che ha praticato anche per i lavori destinati alla mostra Ceramica Dolce. Design e artigianato a Montelupo al Museo della Ceramica di Montelupo Fiorentino.

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“L'Italia non è un Paese, è un mare di storie. Il suo immaginario è un intreccio di infiniti racconti che uniscono il nord al sud e l’ovest all'est. In questo caso l’idea è di riportare l’accento su una ceramica grezza, tipica della tradizione contadina. Matericità e recupero di forme archetipiche dell’araldica locale: è il viaggio della memoria, delle storie, di segni di altri mondi e altri tempi riportate in un unico luogo. Questo è il viaggio che ci siamo potuti godere ultimamente.