Luoghi il cui design è progettato per migliorare le condizioni di salute. Sono gli healing gardens: giardini curativi. Ne abbiamo parlato con Andrea Mati, progettista del verde e esperto di orto terapia

Orti e giardini come luoghi in cui la parola cura assume una nuova e inclusiva declinazione.

Se non avete ancora letto il libro Salvarsi con il verde edito da Giunti, preparatevi a immergervi dentro storie intense, dure e tenaci, tenere e fragili, come le umanità messe ai margini che vi sono raccontate.

Ciò che più colpisce nel libro è la profonda relazione tra piante e umani e l’approccio così attento alla fragilità di Andrea Mati.

L’abbiamo incontrato per ripercorrere con lui i principi con cui progetta e porta avanti i suoi interventi di ortoterapia.

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Iniziamo dalla tua storia, come arrivi a misurarti con la disciplina dell’ortoterapia?

Io provengo da una famiglia di vivaisti storici pistoiesi, il vivaio Mati nasce nel 1909 con il mio bisnonno.

Il lavoro di produzione di piante si è ampliato, di generazione in generazione, con una ricerca sulla progettazione di giardini. Io sono sempre stato più legato alla parte creativa e di progettazione ma la mia grande passione guardava al prossimo e a come tendere la mano a chi è più debole.

A 12 anni sono rimasto folgorato dagli scritti di Raoul Follereau che ha influenzato la mia vita, spronandomi con le sue parole a impegnarmi nel sociale e darmi da fare per gli altri.

Durante il servizio civile ho avuto la fortuna di incontrare Vincenzo Muccioli e le attività di San Patrignano. Ho iniziato quindi ad unire il filone sociale a quello della cura del verde: piantando migliaia e migliaia di piante a San Patrignano e vedendo da vicino come la comunità si giovasse di esperienza nel verde.

Il mio lavoro oggi - con la cooperativa sociale fondata più di 20 anni fa - mi mette a confronto con psichiatri, giardinieri, architetti paesaggisti, agronomi, terapeuti così come con persone che lottano con dipendenza, depressioni o affette da alzaimer e da disabilità che richiedono diverse modalità di relazione e cura.

Entriamo nel tema della fragilità: come può la natura diventare strumento di cura?

Per prima cosa amo sottolineare come la natura ci ponga tutti e tutte allo stesso livello. Una quercia non si chiede chi sia la persona che le sta dando acqua: la natura ci offre una vera definizione di 'normalità' azzerando ciò che nella società sarebbe motivo di differenziazione. Una versione vegetale della livella di Totò.

Un altro aspetto che per me è centrale è lavorare con piante malandate, piante scartate per un loro difetto, perché sono a fine fioritura o perché sono un po’ malandate.

Si instaura, quindi, un percorso di cura parallelo, in cui persone che necessitano attenzione e cura - spesso lasciate ai margini della società - imparano a dedicarla ad altri esseri che nessuno voleva eppure fioriscono, crescono.

Quali caratteristiche sono indispensabili nel progettare e generare un giardino o orto terapeutico?

Ci sono due aspetti da sottolineare: il primo è che l’ortoterapia è una forma integrativa alle cure tradizionali mediche e psicologiche, il secondo è che più che parlare di giardini terapeutici, amo parlare di spazi verdi di cura.

Ma andiamo con ordine.

Aver capito che integrare a percorsi medici delle esperienze che creino nuovi modi di relazionarsi, capirsi, comunicare, curarsi è assolutamente innovativo. Io preferisco però lavorare su luoghi dove si fanno delle esperienze, dove ci si sporchi le mani.

C’è un filone che guarda ai giardini terapeutici anche come luoghi sensoriali. Per quanto siano esperienze assolutamente valide nei loro risultati, io punto a lavorare su luoghi dove si fanno delle esperienze e ci si sporca le mani tutti insieme. Anche a discapito di una ricerca estetica e di design.

Mettendo in secondo piano la forma, un’altra caratteristica fondamentale dei miei progetti è che siano ecosostenibili: non si usano pesticidi e neanche concimi chimici.

Si presta attenzione agli scarti, si guarda crescere ciò di cui ci si prende cura, con tutte le loro imperfezioni e i loro tempi. Altrimenti come possiamo aiutare chi soffre di dipendenze a disintossicarsi se 'dopiamo' la terra?

Espressioni come 'forza della natura' vengono completamente capovolte in questo approccio, sembra essere la fragilità la vera ricchezza con cui riconnettersi.

Vediamo un pianeta messo a dura prova dall’impeto umano al consumo, al rumore, alla velocità, all’inquinare, allo sprecare.

E invece siamo un ecosistema: dobbiamo imparare a salvarci a vicenda. Quando andiamo in un vivaio non guardiamo più solo alle belle piante esposte, andiamo sul retro: andiamo a cercare lo scarto e ripartiamo dal prendercene cura.

Questo mi ricorda di quando nel libro parla della Rivoluzione del Metro Quadro, ci racconta di cosa si tratta?

La mia idea è promuovere una rivoluzione in cui ognuno di noi abbia un ruolo attivo e una responsabilità alla cura.

Se pensiamo di avere 1 metro quadro che ci circonda - abitato da animali, piante e altri organismi, dalla terra e dall’acqua e sfiorato dai nostri vicini - ci approcciamo a un’idea di cura che guarda al piccolo per arrivare a una dimensione planetaria.

Io mi prendo la responsabilità del luogo in cui vivo e lo tutelo. Non solo per me ma per la complessità di abitanti e relazioni che vi sono coinvolte.