Visionari, ribelli, trasgressivi. Dissidenti per vocazione, eversivi e in certi casi apertamente rivoluzionari. I designer che, nella storia, hanno “fatto scuola” non sono tanti. E sono, per lo più, confinati all’era dei grandi cambiamenti sociali. Come mai?
Abbiamo posto questa domanda a Nina Bassoli, architetto e ricercatrice milanese, docente di Architectural Design al Politecnico di Milano. Bassoli ha recentemente co-curato con Pierluigi Nicolin, Gaia Piccarolo e Maite García Sanchis, la mostra Marco Zanuso e Alessandro Mendini Design e Architettura inaugurata all’ADI Design Museum.
Gli ingredienti per fare scuola: libertà di pensiero e influenze esterne
“Una vera e propria rivoluzione nel design, in Italia”, spiega, “ha inizio intorno agli ’70. Un momento spartiacque per il Paese e per la produzione italiana. Il design nasce con la grande ricostruzione del dopoguerra e si sviluppa con le aziende, con una forte sinergia e interazione tra imprenditori e architetti.
Ma è il ’68, con le contestazioni e la controcultura, a influire profondamente sul pensiero di cambiare le cose. Sono anche i primi anni dell’attenzione ambientale, nel ‘73 c’è la prima crisi petroliera, gli hippie lavorano alle prime risposte ecologiche. Tutto è connotato da una grande libertà di pensiero, molte sono le influenze di altre discipline come l’arte e la filosofia”.
In questo contesto nasce a Firenze il Radical Design, detto anche Anti-Design o Contro-design, con Archizoom e Superstudio. Va a Milano e poi decolla fuori dai confini europei, dove sarà conosciuto come Italian radical design, presentandosi al mondo grazie alla mostra al MoMA - Italy: The new Domestic Landscape - che passerà alla storia. Esattamente 50 anni fa.
La critica allo status quo
A venir criticate l’estetica imperante, l’importanza del prodotto, le dinamiche istituzionali, nonostante il movimento abbia poi una sua fortuna in termini di mercato e di prodotto. Tra gli artisti più influenti: Gaetano Pesce, Gianni Pettena, Riccardo Dalisi, il Gruppo Strum e Alessandro Mendini, che valorizza la poetica del Radical design pubblicando il manifesto sulla rivista Casabella. Celebre la copertina nel ’72 in cui un enorme gorilla emerge dalla giungla e si batte il petto all’urlo immaginato di Radical Design.
“Il pensiero di Mendini” continua Nina Bassoli, “è stato influenzato da Jean Baudrillard e dai post moderni francesi, come Derrida, ma anche dall’arte povera di Germano Celant, che non solo ha coniato il termine, ma ha avuto un grande ascendente sui designer radicali.
Alla base delle idee radicali sta il fatto di superare i confini, quindi attingere ad altre discipline, allargare il pensiero oltre design e architettura, pescando dal teatro, dalla pubblicità, dall’arte, dalla comunicazione”.
Dura due anni, dal ’73 al ’75, l’esperienza dei Global Tools, scuola (non scuola) fondata da designer, progettisti e artisti di varia natura - Sottass, Mendini, Franco Raggi, Dalisi, Branzi, De Lucchi, Ugo La Pietra (e tanti altri) – che insieme giocano con la controcultura del design e si definiscono anti-istituzionali.
Si trovano a stilare una sorta di programma manifesto per un ipotetico movimento che non prenderà mai avvio, ma che genera molti seminari, liberi e divertenti, che oggi guardiamo con ammirazione, basati sull’autocostruzione, sul rapporto dell’oggetto con il corpo e con la natura in una sorta di performance cross-disciplinare.
Esistono dei designer radical dopo i Radical?
“I pensatori radicali, coloro che poi faranno scuola”, continua Bassoli, “in realtà sono degli incompresi nel momento in cui reagiscono, altrimenti non sarebbero definiti tali. Un’altra ondata di progettisti arriva intorno agli anni 2000, con gruppi che hanno avuto un ritorno in Italia grazie al Salone del Mobile, momento fondamentale per le sperimentazioni.
Ad esempio il collettivo Droog, designer olandesi che per alcuni anni hanno portato idee innovatrici con alcuni lavori proposti dalle scuole, come la Design Academy Eindhoven. Da lì parte questa nuova ondata di radicalità - ad esempio Marcel Wanders - che allarga il design ad altri temi, ragionando in termini di ospitalità in modo diverso, legando i comportamenti umani all’economia, oppure ragionando sui sentimenti, come la morte e la paura”.
Per essere radical serve ottimismo
Ma Nina Bossoli non pensa che esista oggi una radicalità paragonabile a quella del passato: “Sicuramente è difficile scorporare il design dal contesto sociale, probabilmente bisognerebbe guardare situazioni che avvengono fuori dai circuiti del prodotto. Forse, però, il pensiero radicale ha bisogno di ottimismo che, in questo momento storico, non è proprio facile da trovare”.
Cover photo: Groninger Museum, Groningen, The Netherlands, 1989-1994. Ph. Erik and Petra Hesmerg.