L’oggetto d’arredo indagato in relazione al corpo e alle gestualità che questo rapporto innesca: dalle sperimentazioni radicali dei Global Tools a quelle di Allan Wexler e Fyodor Pavlov-Andreevich

E se per sedersi non servisse una sedia, bensì una cintura?

Questa e molte altre ipotesi sono alla base di un seminario dedicato al corpo che compie cinquant’anni, quello della Global Tools.

Tra il 1973 e il 1975, infatti, nella campagna vicino a Firenze si svolsero incontri che videro come attori principali i protagonisti della stagione Radical del design, da Franco Raggi ad Andrea Branzi e Riccardo Dalisi, Da Ugo La Pietra e Gaetano Pesce a Germano Celant e Ettore Sottsass; ma anche i rappresentati di gruppi come Superstudio, Archizoom, Ziggurat, UFO e 9999.

E Alessandro Mendini che partecipò nella duplice veste di progettista e di direttore di Casabella, rivista che riportò i risultati teorici e visivi di quegli incontri.

Proprio Mendini resta immortalato in una celebre fotografia dove è alle prese con quell’oggetto per riposo, quella cintura che parte non dalla tipologia della sedia, bensì dallo studio antropologico delle posture utilizzate nella storia e nelle latitudini più disparate per sedersi.

Il corpo diviene così non solo il destinatario dell’arredo/oggetto pensato per dare un senso funzionale allo spazio, ma, al contrario, come il vero e unico protagonista di una funzione che coincide con un’azione.

Come più volte sottolineato nei manifesti della Global Tools, l’idea di indagare queste modalità operative e progettuali basate sull’analisi delle relazioni tra corpi e spazi non è quella di sostituirsi alla produzione in sé, ma di sperimentare vie del fare che non siano finalizzate esclusivamente alla produzione industriale.

Tra i seminari previsti dal collettivo, quello sul corpo sarà il più definito e meglio documentato. Se la Body Art in quegli anni scandagliava la corporeità anche nelle sue manifestazioni più estreme e tormentate, gli esperimenti della Global Tools portavano in sé qualcosa di ottimistico e allegro: l’euforia di poter prendere in mano la via del progetto per il gusto dell’esperimento in sé, svincolato dalle necessità del mercato e della compravendita.

Proprio per questo quel momento diventa fondativo di altre proposte più recenti che ragionano sempre sul furniture, ma partendo dal suo effetto sul corpo e soprattutto sulle gestualità che questa relazione genera e come queste possano incidere nei comportamenti.

L’americano Allan Wexler lavora da anni in una zona di “ragionamento assurdo tra arte e design”, come egli stesso la definisce. Professore alla Parsons School of Design di New York, Wexler indaga da anni i cinque sensi attraverso macchine indossabili che li amplificano.

Ma il suo lavoro si fa ancora più eloquente quando utilizza archetipi di arredo – sedie, tavoli, oggetti per la tavola – per indurre comportamenti alternativi a quelli stereotipati dall’uso comune.

Ma attenzione: le sue non sono opere d’arte non fruibili che utilizzano gli arredi, bensì opere dove l’azione performativa indotta dall’arredo diviene lo stesso happening, con la complicità dello spettatore.

Lo dimostra un’opera pubblica, i Two Too Large Tables, dove Wexler crea un grandissimo piano di appoggio e una tettoia con sedute incorporate, dove lo spettatore-attore è chiamato a infilarsi e posizionarsi dando luogo a una modalità di dialogo e convivio del tutto inedita, ma con una sua propria funzione pratica espletata.

Più di recente la collezione Antifurniture di Fyodor Pavlov-Andreevich, ultimamente esposta al Design Museum di Londra, parte da attrezzature, una via di mezzo tra un attrezzo ginnico da pilates e un arredo, per indagare traumi e fobie che dalla mente passano al corpo, somatizzando i nostri disagi in blocchi e resistenze fisiche.

“Il corpo umano”, spiega l’artista e performer, “è in grado di sedersi, sdraiarsi, stare in piedi e appoggiarsi.

Queste azioni sono in genere puramente pratiche, ma il corpo ha l’affascinante capacità di trasformare questi comportamenti banali in gesti, impregnando queste emozioni meccaniche e di routine di un significato sacro.

In questo modo, i nostri corpi quotidiani prendono spunto dai mobili ornamentali: queste azioni iniziano a celebrare il corpo umano, integrando le sue funzioni pragmatiche con una nuova missione di localizzazione nello spazio”.

Ma c’è di più. Pavlov invita gentilmente il pubblico all’utilizzo delle sue attrezzature, che hanno le sembianze di mobili/attrezzi, per richiamare qualcosa di conosciuto e non inquietare. Ma le posture innaturali e complesse che essi impongono sono in realtà direttamente correlate agli stati estremi in cui il corpo umano è costretto da torture e stati di pericolo.

“Collocato in uno degli oggetti dell’Antifurniture, un corpo umano diventa automaticamente un corpo di resistenza, un corpo di maltrattamento, un corpo politico – o addirittura un corpo di guerra”.

Il massimo dello scollamento tra conosciuto e sconosciuto lo genera forse un oggetto riconoscibile come ludico, quello dell’altalena a bilanciere.

Spesso infatti Pavlov fa riferimento al concetto di Luna Park, interrogandosi su cosa significhi realmente un momento di divertimento e come i giochi per l’infanzia possano essere potenti attivatori di memorie recondite.

La sua è così un’altalena molto sui generis, dove i due corpi sono uno di spalle all’altro, non possono guardarsi negli occhi e né basarsi sulla reazione dell’altro per attivare la propria. Si tratta per l’artista di un’opera dedicata proprio alla “pistantrofobia”, la paura di fidarsi degli altri: “Quando non avete la possibilità di guardare negli occhi il vostro interlocutore e dovete comunque coordinare i vostri movimenti, potete provare ad attivare il vostro radar interno.

Quando estraggono le vittime di un terremoto, i soccorritori devono spesso affidarsi solo al loro intuito; a volte, lo stesso intuito tradisce uno dei capi di due Stati confinanti, portando alla guerra”. Parole che oggi hanno un’eco che risuona in ognuno di noi.