C’è tanta arte in questa Biennale
Forse per questo l’impressione del visitatore è che, soprattutto nella prima e nell’ultima scala, cioè nel micro e nel decisamente macro (laddove si parla di pianeta e universo) ci sia molta più arte che architettura. Si nota subito passeggiando nelle prime sale delle Corderie dell’Arsenale: dove troviamo progetti di social distancing ante-litteram (Social Contracts di Allan Wexler), architetture religiose indossabili (Silk Road Works di Azra Aksamija), un baldacchino di nuvole sonore (Grove di Philip Beesley), paesaggio metafora della città aperta e senza barriere.
E tanta scienza
A seguire la scienza assume un ruolo sempre più importante: con gli edifici probiotici, realizzati con pareti porose e organiche (di David Benjamin di The Living) il paesaggio curato da un giardiniere robotico (Magic Queen di Daniela Mitterberger e Tiziano Derme di MAEIS), le struttura architettoniche create dall’intelligenza artificiale sulla base dei segnali neurologici del nostro cervello (Sense of Space di Refik Anadol con Gokhan S. Hotamishgil).
Mentre la tecnologia emerge come salvatrice della natura
Mentre nell’area macro (quella al padiglione centrale dei Giardini) è la volta della tecnologia, proposta in modo deciso da diversi progetti come l’unico strumento in grado di arginare la crisi ambientale che abbiamo provocato e continuiamo ad alimentare.
Basti pensare alla proposta del Self Assembly Lab dell’MIT (Building With Waves), che ha ideato un metodo per spostare la sabbia del fondo del mare usando la forza delle onde per salvare territori che saranno presto sommersi, come le Maldive. O a Satellights di Angelo Bucci, che esplora la possibilità di usare geostazioni spaziali come sorgenti di luce artificiale per illuminare e fornire energia elettrica a intere città.
Uscire diversi da come si è entrati
Malgrado la ricchezza dei contenuti, quindi, la curatela in divenire scelta da Sarkis, lungi dall’essere professorale e noiosamente educational, permette al visitatore di seguire l'evoluzione del discorso di questa Biennale ampia, multidisciplinare e complessa con grande chiarezza. Il risultato è che ci sente felicemente diversi quando si esce rispetto a quando si è entrati: il metro di misura che funziona sempre per capire il valore vero di una mostra.
In copertina: Sense of Space, di Refik Anadol con Gokhan S. Hotamishgil