Dalla 17esima Biennale di Architettura di Venezia, a cura di Hashim Sarkis (che apre al pubblico oggi), si esce diversi da come si è entrati. Per questo è un progetto riuscito

In tempo di Covid, quando ogni spostamento fa pensare (e talvolta preoccupare) e gli ingressi sono contingentati ovunque, porsi la domanda se valga la pena andare alla Biennale di Architettura è più che lecito. Dopo aver visitato la sezione curata da Hashim Sarkis (How Will We Live Together, all’Arsenale e al Padiglione Centrale dei Giardini) la nostra risposta è sì.

Innanzi tutto, concedeteci questo incipit, perché dopo un anno e mezzo di vita culturale in presenza quasi azzerata, arrivare in una città-museo come Venezia, nel momento in cui è più culturalmente vivace, è un toccasana per la mente e il cuore. Che non c’entra nulla con il valore della Biennale ma è quel “fattore umano” di cui sarebbe assurdo non tenere conto.

L’altra ragione, quella più ragionata, ha invece a che fare con la rilevanza e con il valore della curatela. Perché la Biennale di Architettura di quest’anno, pensata da architetto che è soprattutto studioso, pensatore e docente, si interroga su un tema che era già importante prima della pandemia ma che ora lo è ancora di più: come vivremo insieme. Lo fa con l’unica modalità che ha un senso nella contemporaneità, cioè allargando la platea dei contributi uscendo dalla staccionata del settore. Insieme agli architetti e ai designer, Sarkis ha infatti chiamato in causa anche studiosi di discipline apparentemente lontane (dall’informatica alle neuroscienze alla biologia), pensatori, filosofi, artisti. Che non sono un corollario ma una parte decisiva del percorso espositivo.

La libertà di immaginare all’interno di un percorso chiaro

Si parlava della qualità della curatela. È ottima perché la chiarezza regna sovrana: tutto è organizzato secondo un percorso libero e immaginifico ma racchiuso entro una logica ferrea. Ci si può quindi divertire a perdersi nei pensieri provocati dai singoli progetti: a livello di percorso di pensiero generale si saprà sempre dove ci si trova. Tutti i progetti selezionati sono infatti stati organizzati in cinque sezioni, che Sarkis chiama “scale”, cioè focus che vanno dal micro al macro. Ognuna completa la domanda di partenza How Will We Live Together: Among Diverse Beings, As New Households, As Emerging Communities, Across Borders e As One Planet.

“Chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme”, ha detto Sarkis nella sua lectio che introduce la Biennale. “Insieme come esseri umani che, nonostante l'individualità crescente, desiderano ardentemente connettersi tra loro e con altre specie attraverso lo spazio digitale e reale (Among Diverse Beings). Insieme come nuovi nuclei familiari alla ricerca di spazi abitativi più diversificati e dignitosi (As New Households). Insieme come comunità emergenti che reclamano equità, inclusione e identità spaziale (As Emerging Communities). Insieme oltre i confini politici per immaginare nuove geografie di associazione (Across Borders). Insieme come pianeta che sta affrontando crisi che esigono un’azione globale affinché tutti noi continuiamo a vivere (As One Planet)”.

Lo scopo di questo sforzo è concepire, insieme, un nuovo “contratto spaziale”.

 

Il contratto spaziale come scelta politica

Cos’è questo contratto spaziale? È il modo di concepire i luoghi che abitiamo (dal micro al macro) come scelte politiche. Se ci sono quattro sedie in una stanza e siamo in cinque, possiamo giocare a chi si siede per primo e lasciare da parte chi non arriva in tempo, oppure metterle una di fianco all’altra, per poterci stare tutti.

È questa la chiave di lettura che è giusto tenere a mente mentre si visita la Biennale di Sarkis: ogni progetto è una proposta politica prima che architettonica. Una lente per vedere una situazione in un modo diverso da quello attuale. Un compito, quindi, che è sempre stato quello dell’arte prima ancora che dell’architettura.

 

C’è tanta arte in questa Biennale

Forse per questo l’impressione del visitatore è che, soprattutto nella prima e nell’ultima scala, cioè nel micro e nel decisamente macro (laddove si parla di pianeta e universo) ci sia molta più arte che architettura. Si nota subito passeggiando nelle prime sale delle Corderie dell’Arsenale: dove troviamo progetti di social distancing ante-litteram (Social Contracts di Allan Wexler), architetture religiose indossabili (Silk Road Works di Azra Aksamija), un baldacchino di nuvole sonore (Grove di Philip Beesley), paesaggio metafora della città aperta e senza barriere.

E tanta scienza

A seguire la scienza assume un ruolo sempre più importante: con gli edifici probiotici, realizzati con pareti porose e organiche (di David Benjamin di The Living) il paesaggio curato da un giardiniere robotico (Magic Queen di Daniela Mitterberger e Tiziano Derme di MAEIS), le struttura architettoniche create dall’intelligenza artificiale sulla base dei segnali neurologici del nostro cervello (Sense of Space di Refik Anadol con Gokhan S. Hotamishgil).

Mentre la tecnologia emerge come salvatrice della natura

Mentre nell’area macro (quella al padiglione centrale dei Giardini) è la volta della tecnologia, proposta in modo deciso da diversi progetti come l’unico strumento in grado di arginare la crisi ambientale che abbiamo provocato e continuiamo ad alimentare.

Basti pensare alla proposta del Self Assembly Lab dell’MIT (Building With Waves), che ha ideato un metodo per spostare la sabbia del fondo del mare usando la forza delle onde per salvare territori che saranno presto sommersi, come le Maldive. O a Satellights di Angelo Bucci, che esplora la possibilità di usare geostazioni spaziali come sorgenti di luce artificiale per illuminare e fornire energia elettrica a intere città.

Uscire diversi da come si è entrati

Malgrado la ricchezza dei contenuti, quindi, la curatela in divenire scelta da Sarkis, lungi dall’essere professorale e noiosamente educational, permette al visitatore di seguire l'evoluzione del discorso di questa Biennale ampia, multidisciplinare e complessa con grande chiarezza. Il risultato è che ci sente felicemente diversi quando si esce rispetto a quando si è entrati: il metro di misura che funziona sempre per capire il valore vero di una mostra.

 

In copertina: Sense of Space, di Refik Anadol con Gokhan S. Hotamishgil