Preservare (e continuare a generare) la diversità dei musei perché siano luoghi di trasformazione e non emulazione: Bea Leanza anticipa il suo libro The New Design Museum

Per Beatrice Leanza i musei sono luoghi dove immaginare e co-creare visioni per il futuro: prototipi, macchine trasformative, dispositivi di dialogo di cui abbiamo sempre più bisogno per affrontare le crisi del contemporaneo.

Sono parole che indicano azione, evoluzione, collisioni tra forze creative perché Leanza è convinta che ai musei – in particolare quelli dedicati al design e all’architettura – spetti un ruolo ad alto impatto sociale. E che se lo possano guadagnare uscendo dalla logica di omologazione, mettendo in discussione approcci, metodologie e relazioni con pubblici e stakeholder.

È questo il tema che la curatrice (già direttrice del MAAT di Lisbona e del Mudac di Losanna nonché co-fondatrice dell’istituto di formazione e ricerca interdisciplinare The Global School a Pechino) affronta in un libro che verrà presentato la prossima primavera, edito da Park Books: The New Design Museum. Sottotitolo: Co.creating the Present, Prototyping the Future.

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Ce ne ha parlato in anteprima.

Un “new design museum” serve perché è cambiato il design?

Beatrice Leanza: “Il design è simultaneamente poetica e scienza delle relazioni tra forme e oggetti di conoscenza. Il suo ruolo non è cambiato ma si è complicata la dimensione in cui opera, cioè il paradigma del suo intervento che da globale è diventato planetario.

Potendo beneficiare di strumenti, dispositivi e processi aumentati – non solo in senso tecnologico ma in relazione a una sensibilità su cosa sia il reale e a chi e cosa lo popoli – il design può allargare le dimensioni del pensiero e portare avanti nozioni post-umaniste e post-globali, posizionandosi come una pratica transcalare, transnazionale e transmateriale. E dunque anche avere un ruolo chiave nel ripensare il ruolo, le metodologie e le ambizioni delle istituzioni di cultura che se ne occupano”.

Cosa si intende per transmateriale?

Beatrice Leanza: “Intendo un design che non è più una pratica solo orientata alla produzione di oggetti o soluzioni ma dedicata allo sviluppo di processi, metodi e approcci che impattano sistemi, dalla scala molecolare a quella extra-planetaria. In questa accezione il design va dunque a superare i dualismi che a lungo hanno definito il suo intervento, tra materiale e digitale, per esempio, o tra umano e non”.

Qual è il problema dei musei oggi?

Beatrice Leanza: “Le istituzioni culturali stanno vivendo una grande crisi.

Il disinvestimento o malinvestimento pubblico e privato – a livello globale – è un indice della scarsa importanza che si dà ai musei come luoghi dove proporre una partecipazione equa a immaginare e co-creare visioni per il futuro: ovvero quegli spazi e quelle sfere di collaborazione sociale che sempre più vengono erose nelle nostre comunità e di cui abbiamo invece estrema necessità per articolare rinnovate ambizioni collettive e di lungo termine per superare le costanti crisi della nostra era.

Alla scarsità di mezzi si sopperisce con una generale omologazione degli approcci, dei criteri di gestione e delle offerte che tendono anche a essere sempre più politicizzate, distruggendo così la vera ricchezza delle istituzioni culturali che sta proprio nella loro diversità”.

 

Come definiresti questa omologazione?

Beatrice Leanza: “Omologazione vuol dire seguire un modello di riferimento dettato da programmi imperniati sulle esposizioni, da narrative di engagement dei pubblici che dipendono da metriche quantitative di vendite di biglietti e accumulo di followers, inseguire un’economia dell’attenzione spinta dalla produzione costante di contenuti.

La conseguenza è che si accorciano le tempistiche di ricerca e lo sguardo critico, ci si focalizza su tematiche appetibili per il pubblico e i grandi sponsor. Le pressioni economiche hanno portato l’industria creativa e culturale a essere dominate dall’edutainment, che di fatto è la nemesi delle istituzioni perché la cultura deve aprire gli sguardi, porre domande, portare alla trasformazione non all’emulazione”.

Come possono le istituzioni culturali virare dall’omologazione alla diversificazione?

Beatrice Leanza: “Ponendosi domande rilevanti che portino a definire nuovi approcci. Per farlo è necessario aprire conversazioni e far convergere voci, visioni ed esperienze. Siamo in un momento di transizione epocale e c’è bisogno di nuove strutture, connessioni, metodi di azione per traghettare verso il futuro. Bisogna creare relazioni alternative (anche a livello di sostenibilità economica) tra gli stakeholder che partecipano a questa trasformazione e i musei sono luoghi dove queste forme di test, di ‘prova’ e prototipazione possono avvenire.

Il design, che è simultaneamente poetica e scienza delle relazioni tra forme di conoscenza in costante mutamento, ha un ruolo importante in questo scenario”.

A cosa serve questo libro?

Beatrice Leanza: “The New Design Museum – che è costruito anche su una serie di interviste e case studies – non è una directory di nomi e istituzioni, ma uno strumento per aprire conversazioni e alimentare un dibattito che già esiste ma deve allargarsi.

Quello che mi auspico è un cambio di passo, stimolato dalle esperienze disruptive di alcune istituzioni e realtà indipendenti rispetto ai modelli del passato su cui ancora vengono costruiti i programmi di azione di molte istituzioni di oggi”.

Qual è la tua visione sul futuro dei musei?

Beatrice Leanza: “Il tema fondamentale è come preservarne la diversità e come continuare a generarla, uscendo dall’idea che esistano singole strategie vincenti per tutti. Serve che ogni istituzione compia una scelta chiara e strategica rispetto a quale sia la sua visione e missione, a prescindere dalla specializzazione o dalla natura del suo patrimonio, tangibile o intangibile che sia.

Le istituzioni, che potenzialmente possono diventare attivatori e non solo attrattori di pubblici, sono infatti dispositivi collettivi che operano in modo contestuale, facendo leva su quello che Ezio Manzini chiama iperlocalismo: luoghi in cui è possibile intessere relazioni, rispondere con puntualità e precisione, generare sensibilità ed empatia a contesti e condizioni comunitarie. La sfida, di cui si prende in parte carico il libro, è collegare questa contestualità a reti transnazionali con cui confrontarsi per alimentare un processo trasformativo più allargato e connesso”.

Se all’omologazione corrisponde la sostenibilità economica, cosa succede se si scommette sulla diversità?

Beatrice Leanza: “Se il museo smette di essere solo un luogo di comunicazione e scambio di informazioni e diventa spazio di trasformazione, il suo ruolo e il suo impatto cambiano drasticamente. E, di conseguenza, anche la sua attrattiva agli occhi di coloro che in esso investono sotto vari profili. Il museo come dispositivo di trasformazione ha un valore socio-economico e può dunque progettare una nuova definizione e relazioni con chi ne fruisce, da utenti a finanziatori, svincolandosi dalle metriche di mercato e dalle logiche di puro consumo”.