In occasione dell’inaugurazione della nuova sede milanese, Pierattelli Architetture, studio a vocazione familiare, racconta a INTERNI cosa significa lavorare in team, a casa e in ufficio

Pierattelli Architetture è una realtà familiare che a tutti gli effetti si può definire come uno studio-bottega, proprio come si usava in toscana una volta, quando il sapere si tramandava di padre in figlio, a garanzia di un'eccellenza che unisce minuziosamente l’esperienza del trascorso sul campo con la voglia giovanile di esplorare nuove idee.

Lo studio, che è nato a Firenze nel 1980 per intuito e passione dell’architetto Massimo Pierattelli, ha inaugurato nelle scorse settimane una nuova sede milanese, in via Bramante 13.

Una novità che si spiega nella direzione specializzata nei progetti 'corporate', che sin da subito ha descritto l’attività dello studio. A gestire in prima persona il nuovo indirizzo a Milano, sarà uno dei due figli Claudio Pierattelli, che insieme con il fratello Andrea affianca il padre nell’attività di famiglia.

Pierattelli è uno studio multidisciplinare che guarda in diverse direzioni e che sperimenta quotidianamente. Dall’hotellerie al residenziale, dal landscape design all’architettura di recupero. Un esempio del loro operato versatile e di successo è il caso Yellow Square, l’ostello fiorentino che ha rispettato l’esigenza di mantenere il costo di ristrutturazione al metro quadro piuttosto basso, ma con un risultato esplosivo e impattante.

Lo studio rispetta appieno lo 'stereotipo' (in termini positivi, s’intende) dell’attività artigianale fiorentina di una volta: Andrea e Claudio Pierattelli hanno raccontato a INTERNI cosa significa essere architetti e parenti, oggi.

Come si lavora nel vostro studio?

In studio i progetti vengono sempre discussi insieme ai professionisti dello studio mentre alla guida siamo noi due fratelli e nostro padre Massimo, sia per quanto riguarda i progetti che le proposte creative. La fase di brainstorming è sempre ad ampio spettro, il confronto è per noi fondamentale.

Dove ne discutete?

Spesso a casa, a pranzo ci troviamo a discutere di questioni lavorative o di progetti in essere!

Ma naturalmente anche in studio: abbiamo tre caratteri forti, qualche volta la passione ci spinge a discussioni più sentite, sempre però costruttive. Per noi è importante che il progetto funzioni, non solo che sia esteticamente bello, che abbia quindi un senso compiuto e di valore.

Per esempio per il recupero di una struttura a Roma, abbiamo ideato una facciata ventilata che però nasceva da un’idea totalmente diversa: inizialmente avevamo pensato di lavorare con elementi aggiuntivi, poi, ci siamo corretti strada facendo e grazie agli stimoli di tutti è tre il progetto si è trasformato in un intervento d’architettura a tutti gli effetti.

Vostra madre partecipa alle discussioni?

Certo. Anche nostra madre è architetto, è stata urbanista in Regione per 30 anni e ora è in pensione, ma ha una conoscenza tecnica molto precisa e ci dà una mano sulle norme in studio soprattutto sulla fase iniziale dei progetti.

Come funziona il knowledge transfer all’interno del vostro studio?

Il lavoro in studio con carta e lapis è per noi fondamentale, ma è sul cantiere che acquisiamo, ancora oggi, giorno dopo giorno l'esperienza utile a comprendere le dinamiche nel profondo.

In particolare durante il periodo universitario abbiamo avuto entrambi la fortuna di poter vivere la vita di cantiere accompagnando nostro padre, questa è sicuramente la chiave principale del nostro trasferimento di conoscenza.

Bisogna dire però che hanno contribuito alla nostra formazione anche le esperienze vissute fin dall'infanzia: i nostri genitori ci hanno sempre portato con loro in giro per il mondo, aspetto che senza dubbio ha acceso qualcosa in entrambi.

Eravamo sempre entusiasti di visitare città e musei e spesso le mete di viaggio erano scelte anche in base ai luoghi di architettura da visitare. In aggiunta, per essere sincero, anche i mattoncini LEGO hanno i loro meriti!

Come scegliete a chi assegnare di voi un progetto?

In tutti i progetti che seguiamo uno di noi tre è sempre personalmente coinvolto. In questo modo il cliente sa di essere seguito ad personam, proprio come si faceva nelle botteghe di una volta.

Non c’è mai una commessa lasciata i collaboratori, questo per far sì che non si creino triangolazioni o mediazioni e poi perché teniamo molto al contatto diretto.

La scelta del referente invece è determinata dal tipo di progetto in questione: ognuno di noi tre ha una particolare inclinazione sia creativa sia caratteriale, per cui ci lasciamo guidare da questo, sulla base dell’esperienza.

Siete la firma dell’apprezzato Yellow Square di Firenze. Qual è stato l’elemento focale del progetto?

Il colore e la forma. Sembra banale dirlo, ma si ritrova per esempio nel caso del lungo corridoio di accesso alle camere: abbiamo trasformato una parte rettilinea e ‘noiosa’ in uno spazio immersivo. Lo abbiamo fatto aggiungendo delle leggere inclinazioni di 10cm alle pareti, che hanno creato un gioco di luci e ombre intriganti a dispetto di un corridoio di 20 metri che poteva semplicemente essere un susseguirsi di porte l’una accanto all’altra. L’inclinazione apportata è minima, ma il movimento e la dinamicità finale sono in totale sintonia con il concetto di ostello a cui risponde  Yellow Square.

Nei vostri lavori la contestualizzazione paesaggistica conta molto. Come vi muoverete con le commesse su Milano, uno scenario piuttosto differente da quello toscano?

Sì, è vero. Però lavoriamo tanto anche con realtà corporate che possono meglio sposarsi con la nostra presenza su Milano. La duplice sede ci permette di continuare a mantenere attiva la predisposizione progettuale sui due fronti, allo stesso modo.

Ci piace sempre lavorare in sinergia con il paesaggio, rispettandone le caratteristiche.

Lo si può notare nel lavoro fatto per la stazione elettrica di conversione Terna a Suvereto (Livorno): la natura toscana che la circonda, ricca di campi coltivati, hanno ispirato la nuova architettura dell’edificio industriale. Fulcro del progetto è il cotto che si fa carico delle sfumature del paesaggio, riflettendone toni e calore.