Dalle fughe vegetali tra i cubetti di porfido a futuri giardini pensili, abbiamo incontrato il paesaggista Antonio Perazzi che sta rigenerando i cortili degli ex spazi industriali di Manifattura Tabacchi a Firenze. Una conversazione sulla Natura: forza generativa non governabile ma da coltivare, rispettare e onorare

Trascorrere del tempo nei giardini creati da Antonio Perazzi è un’esperienza che riallaccia la relazione tra uomo e natura. Non stai ammirando una bella cartolina, tu sei uno degli organismi viventi che abitano quella porzione di suolo. Seduti ai tavolini dell’hub creativo Manifattura Tabacchi è nata una conversazione sulle non-regole del giardiniere e sulla riqualificazione urbana a impronta vegetale.

Parlaci del concetto di Botanica Temporanea.

Botanica Temporanea è un metodo che teorizza una nuova formula di paesaggio ideato per la frenetica società moderna. È un banco di sperimentazione – non a caso qui a Manifattura Tabacchi ha visto la collaborazione con gli studenti e le studentesse dell’Università di Firenze coordinati dalla professoressa Anna Lambertini – per la creazione di giardini a bassa manutenzione, capaci di migliorare la qualità della vita e riqualificare diversi tempi di ambienti urbani.  

Guarda qui la mostra-laboratorio Botanica Temporanea alla Manifattura Tabacchi

Come deve essere un giardino che vuole essere parte di una rigenerazione urbana? 

Dovrà essere accogliente, aperto e in movimento. La cosa geniale del giardino è che, oltre l’estetica, tocca sentimenti e corde che affondano le radici nell’intimo della nostra infanzia. L’albero di susine su cui ti arrampicavi da piccolo, la noia, il pulviscolo nella luce, i colori più o meno definiti: quando crei un giardino crei anche un giardiniere. E se ci sono giardinieri c’è un luogo frequentato con affetto.

Il paradigma ideale è l’orto che richiede una cura costante, ma gratifica lo sforzo con la produzione dalla produzione creando anche una forma di venerazione verso la potenza generativa della natura. 

Cosa guida la tua progettazione di un giardino?

Quando inizio un nuovo progetto provo un misto di esaltazione e terrore. Mi chiedo se sarò in grado di declinare bene le richieste e le potenzialità. Mi sono reso conto che progettare paesaggi vuol dire pianificare un sistema e completarlo con delle variabili: saper fare ma anche saper ascoltare le dinamiche del cambiamento. 

È sorprendente come si possa attribuire a un rettangolo di terreno delle funzioni, delle finiture e delle specie botaniche ma come l’autentica anima del luogo emerga dalle micro e macro-variazioni apportate dalla frequentazione

È in queste variabili che entra in gioco il concetto di selvatico?

Il selvatico rappresenta il diverso, la relazione con ciò che è fuori da te. Il paesaggio, per definizione, è uno spazio di azione, teatro di vita di organismi, non ha solo una componente contemplativa estetica. È un campo di relazioni tra viventi – uomini, animali, insetti e piante. Spesso, si pensa che il selvatico sia l’antitesi del progetto, invece è un elemento della progettazione. Ci sono giardini pensati per lasciare spazio al “non controllato”, che non vuol dire celebrare l’incolto ma fare del selvatico uno degli elementi del bello. 

Io vorrei andare oltre il giardino, oltre l’idea di controllo che sta dietro al continuo potare, concimare, annaffiare per ripristinare il nostro spirito selvatico e rientrare in contatto con la voglia di vivere la natura.

In questo dialogo dinamico giardiniere-natura, ci sono delle regole?

La prima cosa che faccio in un progetto è dettare delle regole, non perché vengano eseguite rigidamente ma per avere una strategia di sopravvivenza

Per prima cosa devi preparare la tua frequentazione del luogo: spesso inizio strutturando una griglia che delimiti le funzioni e faccia emergere le potenzialità di dialogo tra porzioni diverse di spazio.  

C’è anche una parte legata all’introspezione psicologica. Quasi come un analista devo sondare i desideri e i bisogni del committente e immaginare i modi in cui verrà vissuto quel luogo. Prenderò delle direzioni e darò delle interpretazioni che, per non essere forzature, avranno una parte di imprevedibilità. I giardini della Manifattura Tabacchi, ad esempio, nascono come oggetto dinamico che cresce con le relazioni che lo abitano, che lascia le piante libere di muoversi. 

Ci fai fare qualche zigzag tra le tue ispirazioni? Con quali giardini ti identifichi?

Io penso al giardino come una biblioteca di piante felici di stare insieme. Trovo irresistibile l’idea di vedere il giardino come una storia personale.

Sono affascinato dall’eleganza innata delle specie selvatiche, delle piante cosmopolite che hanno viaggiato con i primi esploratori botanici e hanno fatto proprio l’ambiente in cui si sono adattate. Ammiro i capolavori dei giardini storici ma ricerco una vitalità di forme, una punta di imperfezione che ritrovo quando si lascia la natura libera di muoversi e sorprenderci. 

Oltre il formalismo dell’arte topiaria delle siepi di Levens Hall, io osservo le pennellate imperfette dei tropaeolum speciosum ormai naturalizzati. Sono folgorato dalle contraddizioni di Prospect Cottage, il giardino di Derek Jarman. Poi guardo al verde urbano come forma di buon auspicio di una natura che riprende il suo spazio tra il cemento: amo quindi i giardini comunitari, i progetti come Paley Park di New York, la Promenade Plantèe di Parigi – spunto per la creazione della High Line di James Corner – e la Vallèe di Gilles Clement.

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Torna questa dimensione del giardino come un elemento vivo, fortemente integrato alla vita delle persone. Cosa ti auguri per il futuro?

Vorrei vedere più vuoti urbani trasformati in giardini temporanei, e osservare questi giardini diventare attivatori di comunità e ibridatori di culture. Quanto sarebbe bello se le città moderne fossero così intelligenti da mettere a disposizione luoghi in attesa di destinazione a cittadini che volessero coltivare la terra?