Alfredo Muñoz ha progettato un insediamento per accogliere un milione di esseri umani sul pianeta rosso. Le sfide che si è trovato davanti, racconta, hanno ribaltato qualsiasi metodologia, dovendo far fronte a scenari proibitivi. Per questo, il progetto Nüwa diventa un know-how prezioso portato in dote a un’architettura più sostenibile per la Terra

C’è una luce speciale che illumina il volto di Alfredo Muñoz, quarantatreenne architetto spagnolo fondatore dello studio Abiboo e, con l’amico astronomo Guillem Anglada-Escudé, di SONet, sodalizio interdisciplinare di scienziati proiettato verso un futuro non distopico.

È la luce di chi ha afferrato un segreto lontanissimo e ora vuole portarlo in dote alla società, perché ne faccia tesoro. Il dono di Muñoz al mondo si chiama Nüwa ed è la capitale della prima colonia umana sostenibile e autosufficiente su Marte, progettata da Abiboo e SONet con altri quattro insediamenti immaginari, non per offrire agli umani una via di fuga remota dalla Terra, ma perché dalle condizioni di vita estreme sul pianeta rosso l’uomo possa imparare a vivere meglio e a rispettare il proprio.

“Sulla superficie di Marte le temperature medie sono di circa 60 gradi sotto zero, l’atmosfera è talmente rarefatta da non contenere quasi ossigeno. Le radiazioni solari sono irresistibili e letali, coltivare il cibo è un’impresa a dir poco ardua”.

Proprio per questo motivo, secondo Muñoz, la simulazione della vita su Marte diventa la palestra ideale per l’architetto e per il designer, perché vuol dire misurarsi con una serie di limiti e di istanze che stanno rendendo via via più complicata anche la vita qui sulla Terra.

Nüwa, che è la capitale di una colonia composta da cinque insediamenti progettati due anni fa dal team di questo architetto visionario, è pensata per proteggere gli abitanti dalle radiazioni del pianeta, garantire l’accesso indiretto alla luce solare (e dunque la protezione da malattie e tumori), difendere dal potenziale impatto di meteoriti e ovviare al problema della differenza di pressione atmosferica tra l’interno e l’esterno degli edifici.

Un ribaltamento di stereotipi progettuali e edilizi che impone quell’iniezione di visionarietà ingegneristica con cui dovremmo prima o poi misurarci anche qui, sulla Terra: Marte non è poi così lontano, se guardiamo agli effetti del climate change, e progettare per una dimensione a 401 milioni di chilometri di distanza (o 56, a seconda che consideriamo la distanza massima o minima dalla Terra) vuol dire in realtà confrontarsi con le emergenze dietro l’angolo, pensando alla resilienza del futuro.

“Tutte le città dell’insediamento”, spiega Muñoz “ospitano ciascuna da 200 a 250mila abitanti. Una, Abalos City, è situata al Polo Nord in modo da sfruttare l’accesso ai ghiacci; un’altra, Marineris City, si trova nella vallata più vasta del sistema solare.

Per queste città marziane abbiamo cercato di definire strutture che garantissero un habitat adeguato agli esseri umani e ad altre forme biologiche.

Nüwa, la capitale, sorge sul versante di un’altura con abbondante disponibilità d’acqua, a Tempe Mensa.

Il pendio permette di creare una città verticale incassata nella roccia, protetta dalle radiazioni ed esposta all’illuminazione solare indiretta. I macroedifici, scavati nell’altura, sono modulari e ospitano dimore e luoghi di lavoro, collegati da una rete di gallerie e da ascensori simili a enormi grattacieli”.

Non è la prima volta che il design e l’architettura sbarcano su Marte. Nel 2019, la mostra Moving to Mars aveva unito al Design Museum di Londra aspetti speculativi e scenari futuribili mostrando, per esempio, i prototipi a grandezza naturale dei robot stampati in 3D pensati per costruire rifugi anti-radiazioni con la regolite, l’insieme di sedimenti, polvere e frammenti di materiali eterogenei che compongono lo strato più esterno della superficie del pianeta rosso.

Un allestimento empatico e sinestetico simulava sul pavimento la superficie nodosa di Marte pompandone nell’aria l’odore simile a quello del mosto secco, qualcosa che ricordava il camoscio invecchiato.

Con il loro progetto, lo studio Abiboo e SONet si spingono oltre la pura ricerca per rispondere al brief sfidante della Mars Society che immaginava di impiantare sul pianeta rosso una colonia di un milione di esseri umani in grado di sostenersi da sé, con la possibilità di tornare sulla Terra (per riapprovvigionarsi di cibo, cose e affetti) un mese ogni due anni.

All’esperimento progettuale hanno partecipato trenta professionisti e scienziati di discipline diverse, ciascuno dei quali ha contribuito con la sua mole di conoscenze e punti di vista, incrociando e verificando l’uno con l’altro proposte e output.

“Abbiamo dovuto ragionare in maniera davvero disruptive e non convenzionale”, racconta Muñoz: “L’innovazione non è dare risposte nuove a vecchie domande, ma porsi interrogativi completamente inediti. Tutto ciò che sulla Terra diamo per scontato su Marte entra in discussione e finisce rovesciato, per diventare poi, riportato sul nostro pianeta, un contributo prezioso per le sfide ambientali e sociali in corso”.

Progettare su Marte vuol dire, per esempio, reinventare la nostra alimentazione e la produzione di cibo, fondata sulle colture idroponiche e sulle alghe: “Mentre sulla Terra disponiamo di seimila metri quadri per i consumi pro capite di cibo, sul pianeta rosso possiamo arrivare al massimo a cento metri quadri ciascuno.

Dovremo imparare a comunicare con i robot e a fidarci dell’intelligenza artificiale molto più di quanto non facciamo ora sulla Terra.

Potremo costruire soltanto con materiali e risorse del posto, davvero a km zero. Svilupperemo un’attitudine che, riportata sulla Terra, farà bene al nostro pianeta”.

Ma il vero cambio di paradigma sarà, per Muñoz, quello della socialità: “Su Marte vivremo in case di 25 metri quadri al massimo: trascorreremo la maggior parte del nostro tempo in spazi comuni all’aperto pieni di verde e giardini, svilupperemo un senso di comunità e di appartenenza che forse qui abbiamo perso e che andiamo cercando in certi coliving di nuova generazione.

Ne guadagneremo, forse, anche in spiritualità, impareremo a condividere meglio il senso di ciò che ci circonda e a vivere accanto al prossimo”.

Si chiama Marte, ma, dice Muñoz, è la più potente room for innovation che la Terra ha a disposizione già ora, a 401 milioni di chilometri di distanza.