L’ADI Design Museum, aperto ieri, dà voce agli oggetti della collezione del Compasso d’Oro: uno sguardo sulla realtà creativa e industriale italiana dal 1954 a oggi, senza atmosfere amarcord

Con le sue cinque mostre permanenti e tre temporanee, l’ADI Design Museum – che ha aperto ieri, dopo una lunga gestazione, con esposizione a cura di Beppe Finessi – è un luogo che, come ci si aspetta, mette al centro gli oggetti. Ma che anche, al contrario di altri musei del design dove vige l’approccio amarcord e la tendenza alla glorificazione dell’icona d’autore, sogna di trasformarli in racconti di rilevanza contemporanea.

Nel suo percorso cronologico si intersecano infatti storie tematiche di approfondimento: un doppio registro che è immediatamente evidente grazie a un allestimento “parlante” di Migliore-Servetto e Italo Lupi (che ha curato anche la grafica). L’enorme stanzone di entrata accoglie infatti il visitatore con una serie di “stazioni” organizzate lungo l’intero perimetro in un susseguirsi temporale. Ogni stazione presenta un numero variabile di oggetti – quelli che, nelle 26 edizioni del Compasso d’Oro, si sono aggiudicate il premio – a cui sono associati elementi che ne illustrano il divenire: disegni, immagini pubblicitarie, strumenti di progettazione e tante bellissime frasi scritte da critici e giornalisti di ogni epoca. Un enorme lavoro di studio, raccolta e selezione, per il quale il curatore Finessi ha ampiamente ringraziato Matteo Pirola e il suo team.

Per alcuni oggetti sono state previste aree spotlight, con spazi più ampi mentre, al centro della sala di entrata, la modalità del racconto cambia. Qui, intorno e sopra un enorme plinto, sono stati accostati oggetti appartenenti alla stessa tipologia ma realizzati in epoche e da mani diverse. È l’area tematica Uno a Uno, cui Beppe Finessi ha anche dedicato un libro. Un approccio interessante perché, grazie al confronto visivo diretto, mostra in modo immediato il divenire del sentire, l’impatto della tecnologia sul progetto, l’impatto dello studio dei materiali. Come dice Finessi nel suo libro: è un “insegnamento a saper vedere”.

Cosa rende speciale l’ADI Design Museum rispetto ad altri musei del suo genere?

Innanzitutto il suo posizionarsi come un luogo in primis per gli addetti ai lavori. In un’epoca in cui l’affanno per avere un appeal verso il grande pubblico è quasi un’ossessione, l’ADI Design Museum dice senza paura di prediligere la condivisione del sapere a quella sui social, l’approfondimento su tematiche che stanno a cuore a chi il design già lo conosce rispetto alla mostra blockbuster. Che è poi, senz’altro, il modo migliore per avere successo nell’universo di chi ama il progetto (un pubblico non proprio esiguo, come ha ricordato Finessi in conferenza stampa: “100mila persone solo su Milano”).

L’altro elemento distintivo è la volontà di non mettere nulla sul piedistallo (né gli oggetti, né i loro autori) ma di fare il possibile per spiegare il design come una disciplina corale, una summa fatta di tante parti tutte equamente significative. È questo il messaggio che si evince dal percorso cronologico (dove si dà spazio al ruolo degli uffici tecnici, degli operai delle manifatture, dei comunicatori, dei fotografi…) ma anche dalla scelta di parlare di imprenditori e imprese attraverso mostre temporanee dedicate (al momento su Giulio Castelli, con Olivetti a seguire). Un museo come questo, la cui collezione è nata dall’incontro tra progetto e imprese, non poteva non sottolineare il ruolo chiave che queste ultime hanno avuto, e si spera continuino ad avere, nello sviluppo dell’innovazione progettuale che ci ha resi famosi nel mondo.

Il terzo punto da sottolineare ha a che fare con l’intenzione del museo di diventare un luogo di discussione sulle tematiche della contemporaneità, lette attraverso la lente del progetto. “Siamo partiti da un’idea di generazione urbana, di una piazza che è palcoscenico sulle idee, quelle proposte e quelle ancora da proporre”, ha detto Luciano Galimberti. Questo vuol dire, ovviamente, parlare al pubblico. Non fare mostra di “oggetti vecchi” ma proporli attraverso sguardi sempre diversi, quelli dei curatori che si alterneranno nella realizzazione del suo palcoscenico. La promessa, quindi, è dare a Milano un museo auto-generativo (perché si alimenterà sempre della collezione del Compasso d’Oro) ma non auto-celebrativo. “All’ADI Design Museum si vuole fare ricerca, partecipare alla discussione sul contributo che il design può dare per affrontare problemi del paese e della gente, mettendo al centro la comunità del progetto”, ha detto il direttore Andrea Cancellato.

Il museo è senza dubbio un must per gli amanti del design. Un luogo da visitare con cura, il cui pregio è l’archivismo espositivo e la serietà dell’intento. In ogni stazione, infatti, si coglie non solo una piacevolezza estetica dell’ensemble (con qualche difficoltà in più nella sezione più contemporanea) ma soprattutto un enorme e quasi ostinato lavoro di ricerca sul contesto: attento, premuroso e pieno di affetto per i progetti e chi li ha resi possibili. Le isole di approfondimento sono un piacevole distacco dal percorso cronologico e parlano in modo chiaro della vocazione del museo come un tempio del sapere sul design: un vero plus per gli appassionati.

Ma è un museo per tutti?

“Qui si parla milanese stretto”, ha detto un designer (vincitore del Compasso d’Oro), rispondendo di fatto ‘no’ a questa domanda. E, in effetti, in diverse situazioni non è chiarissimo perché un oggetto rappresenti qualcosa di importante nella storia del progetto. Perché, cioè, abbia vinto il Compasso d’Oro. Una mancanza (annosa, di cui si è già parlato qui) forse dovuta a problemi di spazio, ma che non inficia la piacevolezza e la rilevanza del tutto.