Il lavoro di Jacob Hashimoto pone un tema di recente rilevanza: se l’arte è discutibilmente un’alterazione dello schema fatto dall’uomo sulla natura – l’ordine dell’uomo sul caos primordiale – allora come cambia il significato dell’arte nel momento in cui ci rendiamo conto che le infrastrutture, i sistemi e gli algoritmi, tutti progettati dall’uomo per avvicinarsi all’utopia, stanno perdendo il loro valore?

Entrando nel piano terra settecentesco del Palazzo, i visitatori incontrano un’immensa e fluttuante scultura site specific costituita da 8.500 aquiloni neri di carta e bambù, sospesi dal soffitto e assemblati in una spettacolare nuvola ondeggiante che sovrasta le loro teste.

Quest’opera secondo l’artista vuole essere una scultura densa, non di luce.

 

Il lavoro di Emil Lukas occupa il primo piano dello spazio. L’artista di fama internazionale ha creato tre gruppi di opere, separati ma interconnessi: Lens, Puddles, Threads.

Alla fine del salone, 650 tubi in alluminio, sono assemblati in una sorta di lente gigantesca.

Attraverso i tubi saldati uno di fianco all’altro, la scultura concava è quasi iridescente, permette una visione che si sposta a seconda dei movimenti dello spettatore.

Per molti versi, questi lavori sono classificati più come sculture che come dipinti, e si caratterizzano per superfici tirate in concavità a forma di imbuto, grazie ad una trama di fili.