Oltre 170 ritratti inediti, rari, mai visti riportano alla luce interi servizi fotografici, fino a oggi misconosciuti, e raccontano l'uomo e l'artista

Pier Paolo Pasolini è stato probabilmente l’artista più fotografato del Novecento. Dai primi anni Cinquanta, quando arriva a Roma, fino ai giorni che precedono la sua morte nel novembre del 1975, è stato colto in centinaia di situazioni, sia pubbliche sia private, come se l’obiettivo fotografico lo avesse inseguito in ogni momento della sua vita. La curiosità intorno al Pasolini uomo e artista ha scatenato le macchine fotografiche di tutto il mondo.

In questa mostra (27 maggio/2 ottobre 2022) a Villa Manin di Passariano (Ud), in collaborazione con il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia (Pn), oltre 170 ritratti inediti, rari, mai visti di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 - Roma, 1975): l’esposizione riporta alla luce interi servizi fotografici, fino a oggi non conosciuti, puntando soprattutto sui grandi fotografi stranieri (Richard Avedon, Herbert List, Henri Cartier-Bresson, Jerry Bauer, Jonas Mekas, Lütfi Özkök, Erika Rabau, Duane Michals, Philippe Koudjina, Marli Shamir e tanti altri) e sui luoghi, i momenti e gli incontri che hanno contraddistinto la vita del poeta, restituendone l’immagine di uomo e artista nel mondo, fissata per sempre in decine e decine di pose diverse. I miti esistono e parlano a lungo, anche quando non ci sono più, anche oltre la loro vita terrena. Pasolini continua a parlare, a raccontare storie attraverso i suoi ritratti. Attraverso la fotografia.

Abbiamo chiesto a Silvia Martín Gutiérrez, che si è occupata del progetto scientifico e della curatela della mostra, di raccontarci Pier Paolo Pasolini. Sotto gli occhi del mondo.

Innanzitutto, perchè questa mostra?

Il progetto rappresenta il primo approccio per la stesura di un percorso di studio più ampio, per testimoniare aspetti delle storia e anche della estetica attraverso interpretazioni di grandi fotografi e a costruire un archivio della memoria fotografica pasoliniana con valore documentario, base eventuale per future rivisitazioni. Pasolini è stato fotografato molte volte durante tutta la sua carriera artistica, molti di questi scatti sono ormai diventati immagini iconiche del poeta.

Quanto è importante conoscere accuratamente il nome dei fotografi, così come la data o il contesto di questi scatti?

Mostrare queste fotografie private del nome dell'autore, con l'informazione sbagliata è una notevole responsabilità: la responsabilità di attribuirle senza alcun permesso un’immagine del tutto distorta del suo carattere e della sua storia. Scrive Roland Barthes nel saggio “La camera chiara” che la foto-ritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immagini vi si incontrano, si affrontano, si deformano. “Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”. Il ritratto quindi, in alcuni contesti e situazioni, è un potentissimo strumento semiotico di riconoscimento sociale, di solito coltivato come forma di consacrazione e prestigio sociale. Ma i ritratti fotografici sono un aspetto così centrale e ben incorporato nella cultura visiva contemporanea che spesso passano inosservati. Ma occorre ricordare che il ritratto fornisce la struttura visiva su cui è costruita la narrazione della propria identità.

Se riteniamo la fotografia come base privilegiata di studio di un soggetto, nel caso in esame Pasolini, dobbiamo creare un contesto che ci permetta individuare questi ritratti pasoliniani?

Serve un quadro di indagine in cui approfondire vari livelli: storico, estetico e antropologico. Molte fondazioni e archivi con cui abbiamo lavorato nello sviluppo del progetto hanno definito la situazione particolare dei ritratti fotografici di Pasolini come nebbiosa. E questa responsabilità ce l’ha sia la persona comune che crea o condivide contenuti qua e là con superficialità, sia l’ente istituzionale che pubblica questi contenuti senza prima accertarsi se esista o meno una fonte reale, affidabile. Occorre dunque ricostruire il percorso fotografico dei ritratti pasoliniani, per riuscire così a stabilire una cornice a fini di riferimento futuro.

Pasolini aveva un rapporto diffidente con la fotografia. E' nota la sua affermazione “non mi lascio commuovere dalle fotografie”. Alla luce di questo, quale spirito ha guidato il progetto di allestimento della mostra?

Pasolini non dedicò molti dei suoi scritti all’analisi della fotografia, almeno a un’analisi individualizzata. Non troviamo approfondimenti significativi. Tranne alcune parole sul lavoro con Delli Colli nel 1971 su “Photo 13” o il paragrafo dedicato al processo fotografico delle serigrafie “Ladies and Gentlemen” di Warhol nel 1975, le riflessioni sulla fotografia legata ad aspetti estetici rimangono sempre quelle più numerose. Ma torniamo a questa sua affermazione tratta da un articolo della raccolta “Il Caos” del 13 dicembre 1969, “Serietà e frazioni”: “Non mi lascio commuovere dalle fotografie”. Pasolini sta guardando delle fotografie della manifestazione operaia di quell’autunno caldo del 1969 sul giornale l’Unità.  Questi mesi autunnali vennero preceduti, nel 1968, da grandi lotte sindacali. I metalmeccanici erano alla guida di un movimento senza precedenti.

Perché Pasolini non si lascia commuovere da queste fotografie?

In seguito dice “queste sono cose che commuovono solo nella realtà”. Qui Pasolini collega la sua analisi con quella di Barthes su “La camera chiara” quando dichiara che non ha niente da dire sulle foto d’un reportage sui “casi urgenti”. La fotografia traumatica ritrova dunque il suo specifico nella pura denotazione. Dirà il semiologo francese che attraverso i processi di connotazione, categoria in cui si trova il linguaggio della pubblicità, cioè quello proprio della stampa, si codificano i significati che hanno la funzione di orientare la percezione. Per Pasolini le fotografie dello sciopero del 1969, che lui guarda sul giornale, esercitano un controllo culturale. Per dirla alla Barthes “più il trauma è diretto, più la connotazione è difficile”. Non possiamo stabilire un legame tra la frase di Pasolini con un suo atteggiamento verso la fotografia come mezzo di espressione artistica. Questo è il caso di un’affermazione completamente distorta se la togliamo dal contesto in cui è nata.

La mostra di Villa Manin vuole stabilire un dialogo tra gli sguardi che si incrociano nel ritratto fotografico pasoliniano. Soprattutto nell’incontro tra due realtà che convergono, quella del fotografo e quella di Pasolini.

Ho scelto per questo progetto nomi di fotografi molto diversi sia per il tipo di fotografia che hanno realizzato sia per il momento specifico in cui hanno fissato l’autore. Per esempio avremo la possibilità di assistere a una congiunzione di molti sguardi in un solo momento, parlo del 24 settembre 1966. Nello studio di Richard Avedon si incontrano diverse narrazioni, quella del fotografo newyorkese, un’altra del fotoreporter Duilio Pallottelli, naturalmente quella di Pasolini e infine quella di Oriana Fallaci. Possiamo avvicinarci alle immagini del poeta a New York senza creare un racconto da tutti questi punti di vista e realtà diverse?

Pasolini si è sottoposto, si è esposto, ma anche si è nascosto attraverso la fotografia, l’unica tecnica espressiva di cui non ha mai parlato se non con rapidissimi cenni.

Come ho detto prima, Pasolini è un autore fotografato migliaia di volte, in ogni momento della sua vita dal 1950 in poi. E i reportage, i ritratti fotografici aumentano di anno in anno, mentre lui diventa un regista sempre più famoso. In ogni ritratto Pasolini è riconoscibile, è possibile dire che Pasolini era veramente “fotogenico”. Ma nello stesso tempo Pasolini sembra sempre diverso, sembra sfuggire alla volontà del fotografo di fissarlo per quei pochi secondi. Dunque tanto più viene fotografato quanto più Pasolini diventa misterioso, si chiude in sé, si allontana dall’obiettivo del fotografo. In mostra si vedranno alcuni servizi inediti in cui letteralmente Pasolini sembra appartenere ormai a un’epoca assolutamente lontana. Anche se si veste come un ragazzo alla moda, porta abiti eleganti o sportivi. Il suo corpo e il suo volto sono davanti a noi, ma lui sembra lontano. Non è vero che le fotografie rendono presenti gli esseri umani anche quando non ci sono più. Forse è il contrario, li rendono assenti anche dal loro presente. Nel caso di Pasolini le fotografie lo hanno reso come una Sfinge che ci guarda e ci mette in una posizione di inferiorità. O perlomeno ci costringe a farci domande.