Abbiamo visitato la mostra We Will Survive - a Losanna, fino al 9 febbraio - con la curatrice Anniina Koivu: siamo entrati nel mondo dei neo survivalisti e capito che c'è un po' di loro in ognuno di noi

Sono uscita dalla visita a We will survive. The preppers movement con la consapevolezza di non essere preparata a quello che circa 20 milioni di occidentali hanno battezzato TEOTWAWKI, the end of the world as we know it. A cui si è aggiunta la sensazione allarmante di sapere pochissimo di survivalismo e di tutte le sue sottocategorie: attivisti off-grid, eco-eremiti e cloni di McGiver. E dei loro acronimi, dei loro codici, della grande quantità di oggetti, spesso geniali e di sicuro inaspettati, che la loro cultura ha prodotto.

Anniina Koivu, autrice della ricerca e curatrice della mostra con la chief curator del Mudac Jolanthe Kugler, ha aperto la porta su un fenomeno sociale, una corrente di pensiero diffusa e solida, pronta a sostenere che il mondo è spacciato, e che occorre organizzarsi per sopravvivere e rifondare la civiltà. Dimostrando che una mostra di design è in grado di raccontare un'avventura antropologica inaspettata.

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Come è nata l’idea della mostra?

Anniina Koivu: “Le mostre che ho curato finora nascono da un interesse personale, qualcosa che scopro e che voglio approfondire per curiosità. A me piace raccontare storie, mi meraviglia come tutto sia sempre connesso. A un’azione, un fatto, un evento segue inevitabilmente una reazione. Le mie ricerche aprono delle porte su un fenomeno sociale, su un tema specifico e sulla cultura materiale e progettuale che ne sono risultate.

Lo faccio con l'idea che possa essere interessante per tutti, consapevole che ognuno poi si porterà a casa un contenuto diverso, una riflessione personale su cui non mi interessa avere un controllo. We will Survive. The preppers movement è una mostra senza una tesi di fondo, la semplice esposizione di una ricerca su un fenomeno molto vasto, che come sempre succede ha derive in ogni ambito sociale: istituzionale, individuale e collettivo.

We will survive è il risultato di una lunga ricerca nei meandri di una sottocultura fatta di estremismi e ossessioni, ma anche di problemi reali e di come vengono affrontati a livello collettivo e istituzionale. Cosa ne rimane in estrema sintesi?

Anniina Koivu: “Voglio ancora andare in Kansas a vedere The Survival Condo, un grattacielo di lusso che si sviluppa per quindici piani sotto terra. C’è una piscina, la palestra, un sistema di sicurezza sofisticato. La qualità della luce, dell’aria, dei materiali e dei colori sono stati progettati da Larry Hall per rendere vivibile una condizione innaturale. La mia sensazione è che la ricerca non sia ancora finita.

Un altro pensiero emerso durante questa lunga ricerca è che esistono realtà sommerse o poco visibili che però hanno sempre un senso, non c’è mai niente di completamente assurdo incomprensibile. Mi piace capire quali sono le ragioni, i pensieri e le pulsioni che hanno dato vita a un fenomeno che mi sembra abbia la propria ragione in un istinto di sopravvivenza innato, cruciale per la nostra evoluzione”.

La mostra parte da una galleria grafica che elenca fatti storici, eventi e profezie catastrofiche antichissime e recenti. Una civiltà che davanti alla propria decadenza o all’estremo pericolo aspira alla catarsi, a una seconda chance. Cosa ne pensi?

Anniina Koivu: “Coltivo un atteggiamento ottimista nei confronti dell’umanità e non sono la sola. Not the end of the world: How we can be the first generation to build a sustainable planet (Chatto&Windus, 2024) di Hanna Ritchie e A Paradise built in hell: the extraordinary communities that arise in disaster di Rebecca Solnit (Viking, 2009) sono stati fondamentali per convincermi che ce la faremo.

Facendo ricerca sui prepper e sulle loro numerose sottocategorie, si scopre una cultura fortemente convinta di essere spacciata. Il pensiero imperante è che il mondo finirà e che, nel momento del crollo sociale, gli individui si dovranno difendere dai loro simili e solo pochi super uomini eroici, pronti a ogni evenienza, sopravviveranno.

Io invece credo che abbiamo la possibilità di migliorare. E che il ruolo dei prepper è soprattutto quello di ricordarci che esiste un’emergenza e una sfiducia diffusa nei confronti della politica, delle istituzioni e, più in generale, del futuro. È bello sapere che tutti noi abbiamo una parte prepper dentro di noi, una parte di buon senso che esclude pensieri ossessivi o aggressivi”.

C’è poco design in questa mostra…

Anniina Koivu: “Noi siamo partiti da quello che i prepper consigliano attraverso i loro video blog e le pagine internet ed è chiaro che loro non usano canoni progettuali tradizionali per decidere il valore di un progetto. Direi che il prezzo e la performance sono i discrimini più comuni.

Gli oggetti devono essere ultra razionali, leggeri, utili. Il tema umanistico è ignorato. Per questa ragione ho avuto bisogno di mitigare questa visione includendo anche esempi di arte contemporanea e di buon design, come il Re-Fire Kit di Francesco Faccin”.

A proposito di prodotti, hai fatto anche una riflessione sul mercato dei survivalist.

Anniina Koivu: “Esiste un business che vale diversi milioni di euro e si rivolge a un target completamente trasversale, perché quella dei survivalist è una sottocultura in crescita, alimentata dall’ansia climatica, economica, digitale. Prepper è il ragazzo GenZ come il tranquillo padre di un sobborgo americano e questo ci dice quanto la società stia cambiando, quanto sia grande il desiderio di autosufficienza e la sfiducia nel sistema e nelle istituzioni”.

Qual è l’intento di questa mostra?

Anniina Koivu: “Siamo partiti con una piccola preview di We will survive durante il Fuorisalone 2022 con l’intento di proporre una mostra culturale in un contenitore commerciale, una scelta in controtendenza per esporre una chicca, un piccolo assaggio di una ricerca preliminare e l’occasione per il Mudac di partecipare a un evento internazionale.

Abbiamo avuto un feedback molto ampio e positivo, che ci ha incoraggiati. Qui al Mudac è molto diverso: l’intento è divulgativo, prolungato nel tempo e si rivolge a un pubblico meno specializzato.

Sono due situazioni molto diverse, legate dall’intento di aprire una porta su un fenomeno che tocca la sensazione diffusa di emergenza e crisi con pochi filtri razionali”.