Sono uscita dalla visita a We will survive. The preppers movement con la consapevolezza di non essere preparata a quello che circa 20 milioni di occidentali hanno battezzato TEOTWAWKI, the end of the world as we know it. A cui si è aggiunta la sensazione allarmante di sapere pochissimo di survivalismo e di tutte le sue sottocategorie: attivisti off-grid, eco-eremiti e cloni di McGiver. E dei loro acronimi, dei loro codici, della grande quantità di oggetti, spesso geniali e di sicuro inaspettati, che la loro cultura ha prodotto.
Anniina Koivu, autrice della ricerca e curatrice della mostra con la chief curator del Mudac Jolanthe Kugler, ha aperto la porta su un fenomeno sociale, una corrente di pensiero diffusa e solida, pronta a sostenere che il mondo è spacciato, e che occorre organizzarsi per sopravvivere e rifondare la civiltà. Dimostrando che una mostra di design è in grado di raccontare un'avventura antropologica inaspettata.
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Come è nata l’idea della mostra?
Anniina Koivu: “Le mostre che ho curato finora nascono da un interesse personale, qualcosa che scopro e che voglio approfondire per curiosità. A me piace raccontare storie, mi meraviglia come tutto sia sempre connesso. A un’azione, un fatto, un evento segue inevitabilmente una reazione. Le mie ricerche aprono delle porte su un fenomeno sociale, su un tema specifico e sulla cultura materiale e progettuale che ne sono risultate.
Lo faccio con l'idea che possa essere interessante per tutti, consapevole che ognuno poi si porterà a casa un contenuto diverso, una riflessione personale su cui non mi interessa avere un controllo. We will Survive. The preppers movement è una mostra senza una tesi di fondo, la semplice esposizione di una ricerca su un fenomeno molto vasto, che come sempre succede ha derive in ogni ambito sociale: istituzionale, individuale e collettivo.