Particolare: i tavoli su cui sono esposti gli oggetti sono di vetro cattedrale, esattamente come quelli che completano le finestre e il rosone della chiesa, un invito alla leggerezza, ma anche alla luminosità.
Due elementi essenziali che qui dialogano quasi per contrasto con l’architettura del posto: ne viene esaltata l’imponenza, forse anche la sacralità, certamente l’importanza rispetto a oggetti dell’uomo, per l’uomo, così più piccoli, più bassi, più aerei di quelli del sacro.
E la scelta non è per niente casuale perché il curatore voleva «un luogo diverso per un design diverso», spiega.
Diverso da cosa? Diverso dal design usa e getta, dalla maxi produzione industriale globalizzata, diverso da un’estetica accettata a livello planetario.
«Diversi sono anche i designer in mostra, le generazioni cui appartengono, i materiali che hanno scelto e i metodi di produzione e lavorazione. Diverse, infine, sono le collaborazioni tra i designer e le aziende o gli artigiani, tutti quasi sempre fuori dal marketing che rende un oggetto (o un designer) noto a tutti», continua Sandigliano.
Che poi mi conduce davanti a ogni pezzo esposto per mostrarmi, nel concreto, le diversità di cui parla. Sono undici i designer selezionati, per tre diverse generazioni, dall’emergente Matteo Di Ciommo agli ormai noti Damiani e Faccin.