Visitare la mostra Anish Kapoor Untrue Unreal è un’esperienza che coinvolge, disorienta, impressiona e diverte. Negli ambienti rinascimentali di Palazzo Strozzi a Firenze, fino al 4 febbraio 2024

Con la mostra sullo scultore britannico di origine indiana ed ebreo irachena Anish Kapoor, ancora una volta Palazzo Strozzi partecipa direttamente alle opere esposte concedendo le sue ampie sale e le sue prospettive rinascimentali all’estro di un’artista contemporaneo (dopo quella sul danese Olafur Eliasson (ne avevamo scritto qui).

Anish Kapoor Untrue Unreal (fino al 4 febbraio 2024) è un’esperienza che coinvolge, disorienta, impressiona e diverte. È una mostra adatta a tutti, non lunga, anzi il rischio è di scorrere da un’opera all’altra, da una sala all’altra, troppo in fretta.

Anche per la curiosità di scoprire quale forma ci verrà incontro dietro l’angolo. Così, però, si perde uno dei piani di lettura delle opere, cioè il loro richiamo non solo a essere guardate, ma ad essere percepite con tutti i sensi.

Un dialogo a tre voci tra le opere, il palazzo e i visitatori

La serie di opere esposte spazia da alcune storiche ad altre più recenti fino a Void Pavillion VII, una nuova produzione di Kapoor specificatamente ideata per entrare in dialogo con l’architettura del cortile rinascimentale di Palazzo Stozzi e con i visitatori.

Al primo impatto questo’opera può infastidire perché quasi invadente: lo spazio libero e aperto verso il cielo del cortile d’ingresso sono interamente occupati da una presenza estranea, un padiglione che si pone allo stesso tempo come punto di partenza e di approdo del percorso della mostra.

Si può accedere subito al padiglione oppure aspettare di visitarlo alla fine della mostra, io ho fatto così, quindi le mie impressioni possono essere completamente diverse da chi lo visita subito.

Sì, perché il contenuto proposto non è tanto una forma, quanto una o tante sensazioni stimolate dall’opera. Evito di descriverla per non influenzare chi andrà a vederla, ciò che si ricava, però, credo per tutti, è un senso di straniamento irrazionale, il profondo bisogno di fare dei gesti che non si possono fare, l’invito a immergere lo sguardo verso punti che, se ci lasciamo andare, possiamo immaginare conducano all’infinito.

Come tutte le opere della mostra, Void Pavillion VII potremmo definirla un’esperienza meditativa su spazio, prospettiva e tempo, che sconvolge la razionale struttura geometrica e l’emblematica armonia dell’edificio rinascimentale come la nostra razionale struttura geometrica della mente.

Dimenticatevi le proporzioni abituali

Accedendo al sale del palazzo, la mostra inizia al Piano Nobile con l’opera Svayambhu (2007), termine sanscrito che definisce ciò che si genera autonomamente, corrispettivo delle immagini acheropìte cristiane non dipinte da mano umana.

Ci si trova di fronte a un gigantesco blocco di cera (il colore a me ha evocato la barbabietola, ma a ognuno comparirà la sua immagine guida) che si muove autonomamente su binari tra due sale di Palazzo Strozzi.

Il movimento è lento, all’inizio quasi impercettibile, capace, però, di catturare l’attenzione e di innescare curiosità su ciò che si potrà vedere dall’altra parte o, addirittura, di stimolare il desiderio, alla fine della visita, di tornare a vedere a che punto è arrivata l’opera nel suo percorso. Nella stanza successiva, un’altra opera questa volta dalla forma riconoscibile, ma completamente fuori scala rispetto alle nostre consuetudini.

Endless Column (1992), esplicito riferimento alla celebre omonima scultura di Constantin Brâncuși, è una colonna in pigmento rosso che sembra oltrepassare i limiti del pavimento e del soffitto della sala, creando una sensazione di fisicità architettonica eterea, metafora del legame tra terra e cosmo.

La materia e i colori stimolano nuove suggestioni

Nelle sale successive si alternano materiali e colori, ancora una volta, a cui siamo poco abituati o comunque utilizzati da Kapoor fuori contesto.

Il risultato è sempre quello di farci fare un passo oltre il consueto, facendoci perdere anche, per un attimo, il senso di comfort. Ci sono, per esempio, gli stimoli dati dall’uso del Vantablack, un materiale altamente innovativo capace di assorbire più del 99,9% della luce visibile e che trasforma i volumi tridimensionali mettendo in discussione l'idea stessa di oggetto fisico e tangibile: Kapoor ci spinge, così, a interrogarci sulla nozione stessa dell’essere, proponendo una riflessione non solo sull’oggettualità ma sull'immaterialità che permea il nostro mondo.

La tradizionale nozione di confini e la dicotomia tra soggetto e oggetto sono riproposte anche nelle opere specchianti, Vertigo, Mirror e Newborn, che riflettono e deformano lo spazio circostante e lo ingrandiscono, riducono e moltiplicano, creando, ancora una volta, una sensazione di irrealtà.

Per concludere, qualche parola su una sala che potrebbe risultare, per alcuni, quasi respingente: sono state radunate, infatti, le opere in cui l’artista si confronta con ciò che appare come un'intimità sventrata e devastata in una dimensione entropica e abietta del corpo.

La carne, la materia organica, il corpo e il sangue, temi ricorrenti nella ricerca di Kapoor, sono il soggetto di sculture e pitture che evocano spazi uterini, masse viscerali proponendo un senso di movimento e di trasformazione continua, ma anche una forte sensualità tattile che emerge dall’interazione tra le sensazioni di morbidezza e solidità, organicità e linearità.