Il London Design Museum presenta la prima mostra di Ai Weiwei focalizzata sull’arte del fare e sui manufatti dell’uomo letti come strumenti di comprensione della storia, del cambiamento sociale e dei valori della cultura

Ai Weiwei: Making Sense è la prima mostra del noto artista cinese incentrata sul design, in programma al London Design Museum dal 7 aprile al 30 luglio.

I lavori di Ai Weiwei attraversano sempre molti ambiti e discipline, dall’arte all’architettura, dal design al cinema, dal collezionismo alla curatela.

Le sue trasversali esperienze artistiche comprendono la collaborazione con Herzog & de Meuron per lo stadio di Pechino e con Norman Foster per l’ampliamento dell’aeroporto sempre di Pechino. Ai Weiwei è stato anche co-direttore della sezione Design della Biennale di Gwangju nel 2011.

Qui racconta le nuove sfide rappresentate dall’esposizione londinese, in cui emergono concetti cardine per l’artista quali lo stretto legame del design e dell’artigianato con la politica, la società, il lavoro e l’etica, e, ancora, il ruolo e il valore di storia, memoria e tradizione nella nostra contemporaneità.

Come è nato e si è sviluppato il progetto?

Nel mio lavoro non faccio distinzioni tra categorie come arte, architettura, design o scrittura. Piuttosto, le vedo come un collettore della mia personale interpretazione degli eventi e della realtà che si verificano intorno a me.

Sebbene la società contemporanea possa incoraggiare tali divisioni, preferisco vedere il mio lavoro come un insieme unitario, per evitare di essere incasellato in una determinata identità.

Il concetto di design è sempre stato per me oggetto di grande riflessione poiché coinvolge l’azione umana, la ridefinizione di noi stessi e il linguaggio che usiamo per esprimerci.

Queste domande non competono solo al design, ma riguardano anche le mie opere d’arte, i miei film, la mia scrittura e le mie attività sociali. C’è sempre la questione della ridefinizione.

Il design è un argomento che pervade tutti gli aspetti della mia vita e non sono d’accordo con il concetto di “design per il design”.

La mostra in corso si svolge al Design Museum di Londra e la sfida è stata quella di innestare il mio pensiero sulla storia e sui modelli comportamentali umani nella moderna concezione di design che è solitamente piuttosto limitata e compartimentalizzante.

Questa sfida mi ha imposto di considerare attentamente il linguaggio utilizzato per esprimere i miei pensieri, in modo che fosse corrispondente al comportamento e all’epoca in cui vivo.

Il titolo Making Sense mi fa pensare all’originale prospettiva di Richard Sennett sull’artigianato e sui suoi stretti legami con il lavoro e i valori etici…

Questo argomento riflette uno sfaccettato approccio al pensiero. In primo luogo riguarda la designazione del nostro processo di pensiero attraverso la creazione di un oggetto o di un argomento.

Questo sforzo risale a tempi antichi, quando le persone usavano rituali e pratiche religiose per contemplare la complessa interazione tra l’esistenza umana e l’universo.

In sostanza, il primo e ultimo obiettivo era quello di ‘dare un senso’ alla nostra esistenza e di articolare le ragioni e le forme che la sostengono.

Come ‘usi’ il design e la storia del fare in questa mostra? Qual è il tuo approccio?

In questa mostra, utilizzo l’esistenza come prova o storia e come parte dell’estetica, dell’etica e della visione del mondo delle persone, per delineare le caratteristiche dell’esistenza umana.

Uso i resti della storia, che sono fortuiti ma significativi per le persone, e la loro grande quantità, l’ampio range temporale entro il quale si collocano li rendono tali da non poter essere messi in dubbio.

Includo anche eventi che sono avvenuti nelle mie attività sociali, che mi hanno naturalmente integrato in un brano della storia. Sono consapevole che il mio è solo una parte di tutto lo sforzo umano che non posso ribaltare.

A prescindere da quello che faccio, sarà comunque una prosecuzione di tale sforzo. In queste circostanze non sono preoccupato di fare qualcosa di sbagliato.

Enfatizzando le ‘prove’, io sono, infatti, esistente e non esistente. Molte delle mie opere d’arte stanno a cavallo tra queste due condizioni, cioè si trovano tra ‘con me’ e ‘senza di me’. Cerco di collegare questi due poli.

Il design e l’artigianato possono essere politici? Come impattano sulla società contemporanea?

Un design significativo deve essere intrecciato con la politica e riflettere inevitabilmente i nostri atteggiamenti nei confronti della vita e la nostra visione del mondo. Deve necessariamente avere un impatto su come ridefiniamo chi siamo.

La mostra include nuove opere che esplorano diverse forme del fare attraverso i secoli. Puoi descrivercele?

In effetti, questa mostra prende in considerazione una vasta gamma di aspetti: materiali, prove, scambi di battute sulla politica, fotografia, artigianato e il linguaggio tradizionale utilizzato nel legno e nell’architettura, nonché i metodi di produzione coinvolti.

Questi metodi sono stati sovvertiti da aspetti sociali e sistemi di valori, da cui è risultata un’esistenza complessa e sfaccettata che non può essere facilmente riassunta in una singola frase.

Tuttavia, l’ampiezza delle informazioni, i riferimenti alla storia e la realtà rappresentata dalla mostra contribuiscono tutti al carattere distintivo dell’esposizione.

Cosa significa il passare del tempo? E perché questa idea delle età è così importante?

Secondo me, non siamo che un momento fugace nel vasto fiume del tempo. Questo momento è colorato dalla temperatura e dall’umidità del fiume, nonché dalle informazioni che esso porta da ciò che è passato e da ciò che vi scorre.

Il tempo è l’essenza della vita umana e la nostra consapevolezza del passato, presente e futuro è ciò che ci permette di costruire la nostra narrazione.

È questa possibilità che modella la nostra comprensione del valore e definisce il nostro senso del sé.

Fulcro della mostra sono centinaia di migliaia di oggetti raccolti e allestiti in ampi ‘campi’. Quando e come hai iniziato a collezionare? E cosa significa per te?

Per me collezionare è un processo di riflessione e dissoluzione, un modo per allontanare me stesso da una data equazione, perché il linguaggio esistente è solitamente più ampio di ciò che qualsiasi singola spiegazione può catturare.

Solo quando c’è un’identificazione armoniosa si può contribuire al linguaggio dell’esistenza stessa e, così facendo, diventare parte di un più ampio sforzo umanitario.

Collezionare significa anche creare una tassonomia, dare un ordine alle cose. Il collezionismo può essere una forma di controllo o un’espressione di potere?

Nel corso della storia, il collezionismo ha rispecchiato gli interessi personali degli individui e il modo in cui si identificano con il potere di selezionare.

Ciò che i collezionisti scelgono di acquisire rappresenta la loro comprensione di quali oggetti possono meglio trasmettere la nostra comprensione del passato, poiché tutti gli oggetti raccolti appartengono al passato.

Puoi descriverci i cinque ‘campi’ presentati in mostra?

Farlo con chiarezza è una sfida. In sostanza, ogni campo occupa circa sei metri per dieci, seppur con alcune variazioni.

Dai manufatti dell’età della pietra ai moderni mattoncini giocattolo, questa selezione riflette anche l’impatto delle situazioni politiche che ho vissuto nella mia personale ricerca espressiva e i frammenti che ne sono emersi.

Questi elementi apparentemente non correlati narrano la stessa storia, anche se in modi diversi, vale a dire che tutti noi, consapevolmente o meno, siamo parte della storia. La narrazione della storia è la spiegazione più potente su chi siamo oggi.

Il tuo lavoro è spesso letto come articolato in una serie di dicotomie: passato e presente, manualità e macchinico, prezioso e senza valore, utile e inutile, costruzione e distruzione, tradizione e futuro e così via. Ti ritrovi in questa interpretazione?

In realtà, questo tipo di lettura sembra appartenere a una cultura ‘fast-food’ semplificata e distruttiva. Le opere d’arte sono molto più complesse di così.

Esistono come qualcosa, ma allo stesso tempo si negano e diventano qualcosa di diverso da ciò che sono, anche l’opposto di esso. Per questo la mostra si intitola Making Sense.

L’atto di dare un senso ricorda la filosofia del Tao di Lao Tze, ovvero il modo in cui le cose seguono schemi e regole che governano l’esistenza stessa; il vero modello non può essere pienamente espresso solo attraverso il linguaggio e il pensiero.

Non è qualcosa che può essere definitivamente completato. Quindi, l’attribuzione di un senso rappresenta solo un tentativo, un’esplorazione continua della logica e del significato dell’esistenza.

Come si trasforma qualcosa di utile in qualcosa di inutile ma prezioso? E qual è lo scopo, e il messaggio, dietro questa ‘trasformazione’?

L’utilità o l’inutilità di qualcosa dipende interamente dai nostri giudizi di valore sul comportamento.

Questi giudizi, tuttavia, sono limitati a un ambito specifico dell’esperienza umana, indipendentemente dal fatto che qualcosa sia ritenuto utile o inutile.

Tutti gli sforzi per raggiungere l’utilità sono in definitiva inutili, mentre l’inutilità stessa è utile.

Hai lavorato con diversi materiali, come il marmo, la ceramica, il vetro… Cosa rappresenta per te la sperimentazione con i materiali?

Ogni attività legata ai materiali riflette la capacità degli esseri umani di comprendere e controllare. In assenza dell’intervento umano, i materiali non sono altro che materiali.

In mostra ci sono anche opere che fanno riferimento alla pandemia. Cosa possiamo trovare in mostra legato a questo tema e qual è la ragione della loro selezione?

Le opere d’arte più direttamente correlate alla pandemia di Covid-19 sono le serie sulla carta igienica.

Questo umile prodotto arriva a simboleggiare la fragilità dell’esistenza umana e la rivalutazione di ciò che consideriamo prezioso.

Usando qualcosa di insignificante e apparentemente privo di valore come la carta igienica per rappresentare momenti di crisi mentale ed emotiva, ci confrontiamo con la cruda realtà della nostra condizione umana.

Vorrei ora concentrarmi sulle installazioni su larga scala che portano il visitatore da Kensington High Street alla galleria attraverso una casa della dinastia Qing nell’atrio del museo.

Questa casa risale all’epoca Qing, e anche a prima, alla dinastia Ming.

Ho usato una comune vernice per esterni per decostruirla in blocchi di colore, con un principio simile a quello impiegato da Mondrian, e così facendo ho demolito le caratteristiche etiche dell’architettura cinese.

L’ordine originario non esiste più, anche se è ancora presente la struttura a mortasa e tenone dell’edificio. La sua esistenza è definita dalla sua divisione e dalla sostituzione del suo valore. Il titolo, Coloured House, significa anche “casa pornografica/spazio sessualmente orientato” in cinese, un luogo avvolto dal desiderio.

Molte delle tue opere sono strettamente legate alle tradizioni della Cina. Cosa rappresenta la tradizione in relazione al presente e in una prospettiva futura?

La definizione di civiltà comprende memorie e tradizioni, perché senza di esse non siamo nulla. Le tradizioni comprendono tutti gli attributi che ci connotano, indipendentemente dal loro valore percepito, sia esso buono o cattivo, progredito o arretrato.

Sono semplicemente così. Questa mostra si propone di utilizzare i ricordi degli oggetti e la materialità della loro esistenza come prova per suggerire i limiti e l’assurdità della nostra esistenza.

Testo di Damiano Gullì