Luca Meda ha lavorato molto per la progettazione di oggetti "tecnologici". Come si può spiegare la sua attitudine a un'idea di "bella" tecnologia?
Parliamo del lavoro per Moulinex e Girmi. Tra gli anni ‘70 e ‘80 c’era il design radicale, che era la cifra del design italiano. Poi c’era il buon design borghese, che era quello di Luca Meda. Lui pensava al prodotto industriale con un approccio sistemico, attitudine che condivideva con gli amici Tomas Maldonado e Max Bill. Il prodotto doveva essere essenziale, di buona qualità, pulito.
L’oggetto effimero che ha un suo valore estetico non era la sua preoccupazione primaria. Ci arriva tardi, quando disegna la macchina del caffé Teatro. Ma ho sempre ho avuto l’impressione che quel lavoro sia diventato un’icona involontaria: Luca Meda faceva quello che sembrava corretto fare per l’azienda e il mercato. E in quel momento fare “le cose a forma di…” era di moda. È uno dei suoi progetti più conosciuti ma non riassume il suo lavoro.
Le cose invece che lo rappresentano sono quelle più anonime, che richiedono tantissimo lavoro, riflessione, correzioni. Un approccio più simile a quello di Dieter Rams. Le radio, ad esempio, sono una continua citazione degli insegnamenti di Marco Zanuso: semplici, corrette, senza ricerche estetiche esplosive. Luca Meda amava migliorare l’esistente, perfezionare i linguaggi degli involucri. Non va oltre. Non era il suo interesse.