A Sanremo, fino al 21 maggio, un progetto del fotografo Paolo Riolzi, a cura di Matteo Balduzzi, indaga la città ligure, i suoi abitanti, le sue spiagge, il suo territorio

Se è vero che un’immagine vale più di mille parole, le fotografie di Paolo Riolzi lo testimoniano nelle inquadrature prive della presenza umana, nei colori vividi quasi fluorescenti, nei contorni nitidi senza sfocature. Nonostante l'evanescenza sottile di fondo, ogni dettaglio è identificabile e osservabile. Le sue fotografie raccontano, senza bisogno di parole, paesaggi, orizzonti, momenti che suggeriscono storie e, dietro ogni storia, persone. Le sue immagini si offrono a chi le guarda e ne catturano lo sguardo. E regalandoci tutto questo, Riolzi nobilita il paesaggio come spazio democratico, in cui ogni persona ha diritto d’accesso, fruizione, responsabilità nella gestione e nella cura. Figlia della sua formazione da architetto, emerge dalle sue foto una forma di urbanistica dal basso che riconosce la diversità della collettività come valore primario. In occasione del suo ultimo lavoro, lo abbiamo incontrato per farci raccontare il significato di questa nuova avventura.

Che cos'è Laboratorio Sanremo?

Si tratta di un progetto pubblico che indaga la città di Sanremo. Il percorso di ricerca, che ha preso avvio grazie a una committenza da parte degli assessori Silvana Ormea (Cultura) e Giuseppe Faraldi (Turismo), si è protratto per oltre due anni alla ricerca di un vero e proprio dialogo ideale tra la città, l’immagine fotografica e il pubblico, in collaborazione con Ministero della Cultura, direzione regionale Musei Liguria e il direttore del Forte Santa Tecla, dottor Alberto Parodi.

Come hai affrontato il progetto? Cosa ci hai messo di te, del tuo modo di fare fotografia? Cosa ne hai ricevuto in cambio?

Ho avuto il privilegio di conoscere la città facendo i sopralluoghi con Monica Paracchini che abita e vive a Sanremo, anche lei architetto di formazione; questo mi ha permesso di esplorare in profondità tutto il territorio compreso il suo paesaggio sociale, incontrare persone, visitare i musei, gli edifici storici, gli archivi, ascoltare i racconti di alcuni cittadini. Per due anni ho intervallato sessioni fotografiche con incontri e continue esplorazioni. Questo modo di procedere deriva dalle esperienze fatte con i progetti di arte pubblica precedenti, Vetrinetta e Casetta Bassa, che hanno costruito una sorta di scheletro metodologico, e chiaramente gli embrioni di tutto questo derivano dalla mia formazione, dall’esperienza come assistente fatta dopo la laurea con Gabriele Basilico: per due anni ho viaggiato con lui in Europa. La città e una parte dei suoi abitanti mi hanno restituito un’esperienza intensa e progettualmente significativa, avere la possibilità di raccontarla attraverso diverse pratiche artistiche è un esercizio che mi permette di comprendere meglio il tessuto urbano e sociale.

Come è articolata la mostra?

La mostra si struttura attraverso diverse sezioni. Innanzitutto quella dell'indagine fotografica, vale a dire una serie di immagini realizzate da me in occasione di sopralluoghi, incontri, ricerche e dialoghi con alcuni protagonisti del territorio. La ricerca si traduce in fotografie che rappresentano il confine tra architettura, geografia e antropologia urbana.

Una modalità particolare di divulgare la cultura visiva...

Quando nel 1999 Nicholas Mirzoeff ha scritto e pubblicato Introduzione alla Cultura Visuale, leggendo il testo mi è sembrata subito chiara una sua affermazione “Il mondo come testo è stato rimpiazzato dal mondo come immagine, in questo senso la cultura visuale è una tattica del sapere che serve a studiare la genealogia e le funzioni della vita giornaliera postmoderna.” Geografia, antropologia urbana e sociologia non sono mai state così in dialogo come oggi. Aggiungo che per me non ha più senso usare la fotografia come unico dispositivo proprio in virtù del fatto che la cultura visiva comprende vastissimi campi e discipline che non possono essere ignorati per chi si occupa di decifrare e restituire la città.

E poi?

Poi c'è il coinvolgimento dei cittadini attraverso un progetto pubblico dal titolo “Di che spiaggia sei?” realizzato insieme a studenti e studentesse del Liceo Musicale Cassini e coordinato da alcuni docenti: una raccolta di fotografie scattate sulle spiagge di Sanremo, che raccontano la storia dei lidi e delle persone che li hanno abitati.

Spiegaci meglio...

Come si selezionano le case da abitare, così si scelgono le spiagge dove desideriamo passare il nostro tempo libero, in particolare se non si è turisti. La spiaggia diventa una protesi della casa, un luogo pubblico che diventa familiare. Sono luoghi che spesso i nostri cari hanno scelto per noi. Si cresce insieme a persone inizialmente estranee che diventano poco a poco parte della nostra famiglia: Mauro il bagnino, Carla la vicina di ombrellone, Luigi il cugino grande del nostro amichetto dell’estate. Analizzare queste fotografie “storiche” permette di scavare nella memoria collettiva ricordandoci che anche noi siamo protagonisti di una tifoseria che spesso difendiamo con orgoglio. Il laboratorio è lo strumento di gestione dell’intero processo: il gruppo di lavoro è composto da me, dalle professoresse Lia Motta e Patrizia Magnoni, che hanno il compito di coordinamento, e dagli studenti del Liceo Cassini che hanno incontrato le persone, raccolto le fotografie, fatto interviste.

Che esperienza è stata lavorare con ragazzi e ragazze così giovani? Quale è stato il tuo approccio a loro e il loro accostarsi alla fotografia?

Mi occupo di didattica da sempre, ho iniziato a collaborare con il Politecnico di Milano che ero ancora uno studente del secondo anno di architettura, poi, una volta laureato, ho continuato a insegnare come professore a contratto di Fotografia e Cultura Visiva in diverse Università e Accademie. La formazione è una componente importante del mio percorso professionale. Lavorare con gli studenti è una parte integrante del processo di quasi tutti i miei progetti. Formare giovani vuole dire attivare percorsi per rendere i territori più permeabili ai processi culturali.

Infine, un corto su Alfredo Moreschi...

L’attività dello studio Moreschi racconta da cinque generazioni, dal 1927, la città di Sanremo. In mostra viene presentato uno short-film, che attraverso le parole dello stesso Moreschi e una serie di documenti d’archivio, ripercorre una parte significativa della storia della città. Fotografie, spezzoni di film, produzioni del Cineclub e Fotoclub, consentono di rivivere la Sanremo degli anni 50 e 60.

Quali obiettivi ti sei prefisso con Laboratorio Sanremo?

Incoraggiare il dialogo tra le persone e le generazioni, favorendo l’incontro e la condivisione del tempo; individuare gli elementi dell’identità collettiva per mettere in relazione la memoria sociale e il senso di appartenenza; progettare un processo di partecipazione alla vita culturale del territorio; incrementare il numero di fruitori dell’arte contemporanea; consolidare la relazione tra cittadini, cultura e istituzioni pubbliche.

Sei riuscito a raggiungerli? Tutti o in parte?

Non sono riuscito a lavorare come avrei voluto sulla Pigna, il nucleo storico della città, il suo cuore. Ho incontrato più volte alcuni membri delle associazioni locali, abbiamo ipotizzato un laboratorio. Il progetto consiste nella costruzione di un modello metodologico con l’obiettivo di mettere a sistema le iniziative di tipo bottom-up creando la struttura di un programma di azioni, flessibile articolato nel tempo. Il progetto “Pigna” ha l’obiettivo di creare coesione sociale attraverso progetti culturali\sociali che prevedono processi partecipativi di coinvolgimento della cittadinanza.

Perchè una location come il Forte Santa Tecla?

Lo spazio espositivo del Forte Santa Tecla è il luogo in cui questo dialogo prende forma e viene presentato al pubblico attraverso il ricorso a più linguaggi e a diverse modalità di produzione e di utilizzo della fotografia: lo sguardo artistico, la fotografia vernacolare delle foto di famiglia e l’attività professionale dello studio Moreschi.

Un'esperienza che pensi rifarai?

Certo, ogni volta si impara qualcosa e si spera di aver lasciato qualche traccia positiva sul territorio dove si è lavorato. A Sanremo, ad esempio, a differenza di altre volte dove il mio lavoro era mediato da un’istituzione, un Museo, questa volta le relazioni con le istituzioni e la politica erano gestite direttamente da me è questo rende il lavoro più complesso ma anche più ricco di esperienze. Idealmente come è successo per il progetto Vetrinetta, realizzato con due Musei, Museion Bolzano 2012, Mufoco Milano 2015, anche questo progetto è replicabile in altre città.

Tutte le foto © Paolo Riolzi